Silvio Berlusconi ha dato a Raffaele Fitto 15 giorni di tempo per decidere se porre fine alle contestazioni o uscire fuori Forza Italia. Fitto gli ha risposto: “Mi cacci perché ho ragione”.
La vicenda suscita curiosità per la cronaca corrente, essendo destinata a modificare gli equilibri delle forze presenti in Parlamento. Ma, dopo la cacciata di Gianfranco Fini e l’abbandono della casa paterna da parte di Angelino Alfano, c’è qualcosa dietro questi “scazzi” politici che va al di là della parabola del partito che per circa un ventennio ha raccolto consensi e suscitato speranze in larghi strati dell’opinione pubblica nazionale.
Nella loro sequenza è possibile intravedere il paradigma dell’obbedienza di cui si pasce il potere per affermare e legittimare la propria sovranità. Come il padre la chiede o la pretende dal figlio, così nell’ambiguo gioco delle relazioni politiche l’obbedienza è l’essenza per il riconoscimento del potere, qualunque sia l’origine elettiva o autocratica di chi sta sopra rispetto a chi sta sotto. La sua negazione può essere il segno di una nuova alleanza o l’incipit culturale di un nuovo patto di convivenza democratica.
Diversamente da quanto accaduto con Fini ed Alfano, nello scontro con Fitto non si intravede un finale. Ma in una immaginaria rappresentazione teatrale ci possono stare la commedia o la tragedia o la sceneggiata. La scelta va dalle trasposizioni dello “eccomi” di Abramo pronto a sacrificare Isacco per restaurare la gloria divina e quella sua verso il figlio, oppure del mito di Laio, re di Tebe travolto dalla mania di potenza, ucciso inconsapevolmente dal figlio Edipo, con tutte le maledizioni che ne seguirono, all’irruzione nel salotto di signori incravattati del rozzo contadino che ricorda al figlio istruito che “o zappatore non si scorda mai del padre”.
Con l’attenzione che ruoli ed interpretazioni riconducibili ai protagonisti del citato braccio di ferro sono liberamente casuali.