scritto da Fabrizio Prisco - 23 Novembre 2018 10:52

100X100 Cavese di Fabrizio Prisco: La leggenda dello sfondarete

Non sono mai stato bravo con i piedi. Quando frequentavo le medie, verso la fine degli anni Ottanta, nelle partitelle tra coetanei nel cortile della scuola, o in quelle del rione, i più grandi mi mettevano sempre in difesa. “Non far passare nessuno” mi dicevano, anche con un tono un po’ brusco. E io facevo quello che potevo, con le buone o con le cattive. Di pomeriggio, dopo aver finito i compiti, i compagni mi venivano a citofonare e andavamo a giocare nel campetto di fronte a Villa Alba, prima del ponte dei Carabinieri.

Il fondo era in cemento ed era durissimo, non c’erano nemmeno le porte, ma per noi andava benissimo. Bastava ci fosse un Super Santos o il mitico Tango, e si cominciava: eravamo capaci di andare avanti ad oltranza, fino a quando per via dell’oscurità dovevamo smettere, o fino a quando all’ora di cena qualche mamma disperata ci veniva a chiamare per riportarci a casa.

Ognuno di noi era conosciuto con un nomignolo. Solitamente i più bravi venivano identificati con i calciatori più forti del momento. Ad esempio, nel nostro gruppo, avevamo uno che per la sua capigliatura folta e riccioluta assomigliava a “Gullìt”, con l’accento rigorosamente sulla i. Ma c’era anche un ragazzo dalla pelle scura che sapeva accarezzare la palla come Pelè: noi lo chiamavamo “O’ Rey”, proprio come il campione brasiliano.

Io ero conosciuto con lo pseudonimo di “Pal ’e fierro”, il soprannome di Bruscolotti, il mitico terzino del Napoli del primo scudetto. Come lui non ero molto dotato tecnicamente, ma tutti mi temevano perché nei contrasti ero un osso duro e non era facile superarmi.

Uno degli attaccanti più pericolosi in queste sfide all’ultimo sangue era un ragazzino che si faceva chiamare “Levratto”. Era rapido e sgusciante ed era dotato di un tiro forte e preciso. Quando veniva dalle tue parti dovevi cercare di non perdere di vista il pallone, altrimenti ti fregava: in un attimo ti faceva un tunnel o ti ubriacava con un paio di finte e poi riusciva a centrare la porta, anche da posizione defilata. “Levratto” abitava a Pregiato e non lo vedevamo spesso. Quando si presentava al campetto di Villa Alba, però, facevamo a gara per inserirlo nella nostra squadra, perché ti garantiva minimo minimo 5 o 6 gol a partita.
Sinceramente non avevo mai sentito parlare di questo Levratto. Sicuramente doveva essere un bomber del passato, perché in serie A o in serie C/2, nel girone della Cavese, non c’era nessuno con quel nome.

Un pomeriggio, allora, approfittando di un momento di pausa tra una partita e un’altra, mi avvicinai al ragazzo di Pregiato e gli chiesi senza alcun indugio chi fosse il suo idolo misterioso.
– Come, non conosci Levratto? – fece lui, guardandomi con un’espressione meravigliata – è stato uno dei più forti attaccanti della Nazionale negli anni venti e ha giocato anche nella Cavese…
– Ha giocato nella Cavese? – risposi incredulo – stai scherzando? E quando?
– Verso la fine degli anni trenta. E ci ha fatto vincere anche un campionato. Ma facciamo una bella cosa. Domani pomeriggio ti porto da mio zio che sa tutto di lui e ti faccio raccontare la sua storia. Io la conosco a memoria, ma non mi stanco mai di sentirla.

L’indomani io e “Levratto”, come pattuito, non ci presentammo al campetto di Villa Alba. Avevamo di meglio da fare. Ci demmo appuntamento a Pregiato, nella piazzetta di San Nicola, e andammo a trovare lo zio che gestiva una vecchia autorimessa, proprio da quelle parti. Non appena entrammo in quel luogo, mi resi conto immediatamente di trovarmi in una specie di museo biancoblù. Ai muri dell’autorimessa infatti erano appesi diversi poster della Cavese, di tutte le epoche. C’era la squadra di Lojacono che nel 1976/77 era ritornata in C, quella mitica di Santin con la maglia gialla che nel 1980/81 aveva conquistato la promozione in B, quella del 1985/86 con Urban e Rovani, e poi una serie infinita di ritagli di giornale con formazioni, tabellini e fotografie. Di Levratto però nessuna traccia. Mentre guardavo con ammirazione il materiale custodito gelosamente ed esposto con tanto amore per i clienti dell’autorimessa, un signore sulla settantina ci venne incontro e ci accolse con grande calore.
– Piacere, Armando – mi disse porgendomi la mano – vuoi sapere chi era Levratto, vero? Mio nipote mi ha parlato di te. Andiamo di là, nel mio ufficio, così ci mettiamo comodi, e ci facciamo una bella chiacchierata…
La prima cosa che fece lo zio di “Levratto”, una volta entrati nel suo ufficio, dopo averci fatto accomodare su due sedie di legno un tantino mal ridotte, fu tirare fuori il suo portafoglio dalla tasca dei calzoni per mostrarci due autentiche reliquie che portava sempre con sé: il biglietto del derby con la Salernitana del 28 ottobre 1979, quello vinto 2-1 dagli Aquilotti grazie ad una rete di Enrico Viciani; e una figurina Panini ingiallita degli anni Sessanta, raffigurante una vecchia gloria in maglia azzurra, Virgilio Felice Levratto, attaccante della Nazionale.

Ecco chi era il vero Levratto! Finalmente vedevo il suo volto: aveva una mascella pronunciata, un sorriso deciso, i capelli impomatati con la riga sul lato e mi dava l’idea di uno che sapeva il fatto suo e che non aveva paura di nulla. Lo zio di “Levratto” appoggiò la figurina sulla scrivania, e l’accarezzò come se avesse davanti un uomo in carne e ossa. Poi cominciò a parlare.
– Ero poco più grande di voi quando vidi per la prima volta dal vivo Levratto. Era il 1939 e la Cavese militava in Prima Divisione. Da pochi mesi a Cava era stato costruito il nuovo campo sportivo, intitolato alla memoria di Franco Palmentieri, un nostro concittadino che si era arruolato volontario in Spagna per combattere al fianco del Generale Francisco Franco, e che era caduto un paio di anni prima a Guadalajara. Da quando nel 1929 il campo Arena era stato abbattuto per costruire una variante alla statale 18, che congiungesse la Ferrovia con la zona che oggi porta alle spalle di Via Mazzini, a Cava si era tornati a giocare a calcio in Piazza San Francesco, e la Cavese era scomparsa sia per motivi economici, sia perché non disponeva più di un campo regolamentare per le gare ufficiali. Ma nella nostra amata valle nessuno aveva messo da parte la passione per il football: fu così che grazie al contributo di tantissimi soci, oltre 400, nel giro di qualche anno, venne edificato un nuovo impianto che poteva contenere 5000 spettatori e che venne inaugurato il 14 giugno del 1939, in occasione di una partita contro l’U.S. Pompeiana.

Il “Palmentieri”, che oggi non esiste più, distrutto dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, sorgeva in pieno centro, in mezzo ai palazzi, tra Via Canonico Avallone, via Canale, e l’attuale via XXIV Maggio. Dal lato del Borgo Scacciaventi c’era il settore “prato”, mentre dalla parte opposta, era stata eretta una capiente tribuna in legno che dava le spalle a Monte Finestra. Quando giocava la Cavese il campo era sempre gremito, così come erano pieni i balconi che affacciavano sul terreno di gioco. In occasione delle gare di cartello qualcuno si arrampicava persino sugli alberi che circondavano il “Palmentieri”, pur di vedere all’opera i calciatori con l’aquila sul petto.

Spinti dall’entusiasmo per il nuovo impianto di gioco, la dirigenza metelliana capeggiata dal presidente Vincenzo Luciano, Maggiore della Milizia fascista, fece un notevole sforzo economico e per la stagione 1939/40 costruì una squadra di tutto rispetto. Dal Savoia giunsero i fortissimi Vetrò, Albergatore e Borza, ma il fiore all’occhiello fu l’acquisto nella duplice veste di giocatore/allenatore di Felice Levratto, ex attaccante del Vado, del Genoa, dell’Inter, della Lazio e della Nazionale. Il suo ingaggio venne accolto dagli sportivi di Cava con notevole entusiasmo. Levratto, a 35 anni, era ormai a fine carriera, ma fisicamente si manteneva bene e in campo aveva ancora tanto da dire. Mio padre mi portò subito a vederlo al “Campo Palmentieri” e io rimasi folgorato. In breve tempo divenne il mio giocatore preferito. Grazie ai suoi consigli e ai suoi gol, la Cavese vinse il campionato di Prima Divisione e fu promossa in serie C, superando la concorrenza di Casertana, Salernitana, Pompeiana e Bagnolese.

Il racconto di don Armando mi aveva rapito.
– Era veramente così forte, Levratto? gli chiesi, desideroso com’ero di conoscere altri aneddoti su quel centravanti favoloso.
– Forte? Era fortissimo! – continuò con gli occhi sognanti l’anziano garagista – pensa che aveva un sinistro così potente che bucava le reti avversarie nel vero senso della parola. Durante la sua carriera è capitato sette volte. Tutti lo conoscevano come lo “sfondareti” e il Quartetto Cetra, celebre complesso musicale degli anni Cinquanta e Sessanta, nel 1959 gli dedicò anche una canzone, intitolata “Che centrattacco”.

Levratto era nato a Carcare, in provincia di Savona, il 26 ottobre del 1904, secondo di quattro fratelli. Il padre, Antonio, faceva il calzolaio; la madre, Angela, la casalinga. Da ragazzo iniziò a giocare nel Vado e condusse la squadra della piccola cittadina ligure alla conquista della Coppa Italia nel 1922. In finale contro l’Udinese il centravanti realizzò il gol decisivo con un formidabile tiro da fuori area che superò il portiere e strappò la rete della porta. L’arbitro, prima di convalidare il punto e decretare la vittoria del Vado, dovette far recuperare il pallone che si era stampato su uno dei piloni dello stadio. Quel giorno nacque il mito di Levratto. Passato al Genoa, in un baleno divenne lo spauracchio dei portieri avversari. Si dice che avesse un sinistro così potente perché da ragazzo si allenava con un pallone durissimo, fatto di stracci e di frattaglie che gli aveva confezionato un macellaio amico del padre.

In breve tempo venne convocato in Nazionale. In maglia azzurra collezionò 28 presenze, segnando 11 gol. Partecipò alle Olimpiadi di Parigi del 1924 e di Amsterdam del 1928, durante le quali vinse la medaglia di bronzo. A Parigi, Levratto che all’epoca giocava nel Vado e non aveva ancora compiuto venti anni, divenne celebre per un altro episodio che merita di essere raccontato. Il 29 maggio 1924 l’Italia, in una gara valida per gli Ottavi di Finale dei Giochi Olimpici, si trovò ad affrontare il Lussemburgo. Sul punteggio di 2-0 per noi, Levratto, servito da Baloncieri, con una cannonata delle sue, colpì in pieno volto il portiere avversario Bausch che ricadde all’indietro esanime in una pozza di sangue.

“Dio mio, l’ho ammazzato!” pensò l’attaccante della Nazionale e si mise le mani tra i capelli pieni di brillantina. Per fortuna non era accaduto nulla di irreparabile. Bausch in realtà, al momento del tiro, aveva semplicemente la lingua tra i denti e il colpo tremendo che aveva subito gliene aveva reciso un pezzetto. Ecco il motivo di tutto quel sangue. Poiché a quei tempi non esistevano le sostituzioni, Bausch venne medicato alla meno peggio e riprese il suo posto tra i pali. Il destino volle che cinque minuti dopo Levratto arrivasse di nuovo dalle sue parti, tutto solo e pronto a calciare verso la porta. Ma il centrattacco non fece in tempo a caricare il suo potente sinistro, che il portiere abbandonò la porta e scappò via a gambe levate.

Levratto allora si mise a ridere e per non umiliare l’avversario, comprendendo il suo stato d’animo, calciò fuori la palla, tra gli applausi del pubblico. Anche nel 1928, alle Olimpiadi di Amsterdam, nella semifinale contro l’Uruguay, un suo sinistro dai venti metri bucò la rete della porta avversaria. La Celeste vinse comunque per 3-2 e si aggiudicò poi il torneo, ma Levratto fu eletto miglior giocatore della manifestazione. L’unico rammarico di quell’atleta poderoso fu il fatto che non riuscì mai a vincere lo Scudetto da giocatore, nonostante la caterva di reti segnate con le maglie di Vado, Verona, Genoa, Inter, Lazio e Savona. A Cava rimase per un paio di anni e ci condusse al trionfo con innegabile maestria e con l’entusiasmo e la classe propria dei grandi campioni. Uno dei gol più belli che Levratto firmò con la casacca della Cavese fu quello rifilato alla Scafatese alla fine di marzo del 1940. Fu un gol determinante per la vittoria del campionato. Io ero sugli spalti del “Campo Palmentieri”, in compagnia di mio padre. Se chiudo gli occhi mi pare di avere ancora davanti agli occhi quella meraviglia…

Don Armando si fermò all’improvviso e scattò in piedi, come se stesse tornando davvero indietro di quasi cinquant’anni.
– Il “Palmentieri”, pieno in ogni ordine di posto, freme. La Scafatese, non si sa come, è in vantaggio per 2-1. Noi attacchiamo, ma non riusciamo a segnare. Siamo alla metà del secondo tempo: Levratto si procura un calcio di punizione al limite dell’area. E’ lo stesso attaccante in maglia blu che si porta sul punto di battuta. Parte Levratto, il sinistro potentissimo non dà scampo al portiere avversario, RETE! RETE! RETE!, pareggio della Cavese! Il pubblico è in visibilio! Levratto esulta, ma incoraggia ancora i suoi: non è finita, bisogna provare a vincere. La Cavese si riversa nella metà campo della Scafatese, ormai è un assedio. Mancano tre minuti al termine, ancora Levratto serve Vetrò, tiro, RETE! RETE! RETE!, 3 a 2, 3 a 2. VINCIAMO! VINCIAMO! VINCIAMO NOI!!!

L’urlo di don Armando aveva fatto tremare la vetrata dell’ufficio dell’autorimessa. Il vecchio garagista era in trance agonistica come se fosse un atleta, sbraitava e sbatteva i pugni sulla scrivania. Noi lo guardavamo a bocca aperta. Poi, improvvisamente, si calmò e si sedette, rientrando in sé.
– Scusatemi ragazzi – ci disse – ma mi faccio sempre prendere. Levratto era il mio idolo quando avevo più o meno la vostra età. Chi ti regala certe emozioni rimane per tutta la vita nel tuo cuore, non riesci a dimenticarlo. La Cavese poi è “‘na malatia”, ma questo lo sapete già…Tornando a Levratto e alla sua avventura a Cava, non solo fu l’artefice principe del ritorno in C, ma rimase anche l’anno successivo sulla nostra panchina, vestendo principalmente i panni di tecnico. Disputammo un buon torneo e ci piazzammo al settimo posto, togliendoci la soddisfazione di fermare sul pareggio la Salernitana e la capolista Terni che poi avrebbe vinto il campionato. Al termine della stagione, Levratto ci salutò e andò ad allenare lo Stabia. Al suo posto fu promosso il centromediano Cipriani che aveva giocato in serie A con la maglia della Roma. Quando Levratto venne a giocare a Cava con la squadra di Castellammare il pubblico gli tributò un meritato applauso…

Don Armando si alzò nuovamente in piedi davanti alla scrivania e smise di parlare. Stavolta aveva gli occhi lucidi. Poi si lasciò cadere sulla sedia e ci sorrise. Io e “Levratto” ci guardammo. Avevamo la pelle d’oca.
– Zio ce ne andiamo, ti lasciamo lavorare. Ti abbiamo disturbato abbastanza.
– Grazie, don Armando. Grazie di cuore…
– Buona serata ragazzi, grazie per la visita. Tornate quando volete. E forza Cavese!
Mentre tornavo verso casa, stando attento alle macchine che sfrecciavano lungo via De Filippis, non smettevo di pensare al racconto di don Armando. Ora sapevo chi era veramente Levratto. Finalmente avevo capito perché il mio amico aveva scelto quel soprannome.

Il pomeriggio successivo non andai a giocare al campo di Villa Alba. Una volta finiti i compiti, mi recai in via Canonico Avallone e in via XXIV Maggio, per cercare i resti del “Campo Palmentieri” sopravvissuti ai bombardamenti e allo scorrere inesorabile del tempo: la parte del muro di cinta dove era situato il botteghino e il cancello di ferro dal quale accedevano gli spettatori per entrare nel settore “prato”. Mentre mi trovavo dove una volta sorgeva lo stadio, ad un tratto mi sembrò di ascoltare in lontananza l’urlo della folla. Immaginai di vedere all’opera il vero Levratto, nell’atto di usare il suo potente sinistro. Un brivido mi corse lungo la schiena.

Sì, è vero. La Cavese è “’na malatia”, come diceva don Armando. Non c’è età o classe sociale che tenga. Nessuno è immune al fascino della maglia biancoblù. E’ una passione che ci tiene legati alla terra natia e che quando sei avanti con gli anni ti fa ritornare bambino in un attimo. Basta un ricordo, un gol, un racconto, una fotografia. Ecco perché è importante conoscere la storia della nostra squadra e di chi l’ha resa grande. Ecco perché è importante tramandare alle nuove generazioni le gesta di un campione come Levratto e la sua leggenda.

Dopo la seconda guerra mondiale il centravanti ligure ritornò a Savona e riprese a fare l’allenatore con alterne fortune. Guidò anche il Messina, il Lecce e, da secondo di Fulvio Bernardini alla Fiorentina, vinse finalmente lo scudetto nel 1955/56.

Morì a 64 anni il 30 giugno del 1968 all’Ospedale Civico di Savona. Trascorse gli ultimi giorni tra la vita e la morte. Si dice che prima di spirare, durante il deliquio, si sia messo ad urlare dal letto “Via, via, avanti!”, come se si trovasse su un campo di calcio e stesse incitando i compagni all’attacco. Chissà cosa avrà pensato il malcapitato portiere del Lussemburgo Bausch quando si sarà ritrovato lo “sfondareti” su una nuvola, con un pallone sotto al braccio. Probabilmente sta ancora scappando.

(fonte Cavese 1919 http://www.cavese1919.it/)

 

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