scritto da Redazione Ulisseonline - 18 Ottobre 2018 12:47

100X100 Cavese di Fabrizio Prisco: Alessandro Tatomir, il Capitano

foto Gaetano Guida

Se a distanza di undici anni, ogni volta che il centrocampo aquilotto non gira, il pensiero corre a lui, qualcosa vorrà pur dire. Ci vorrebbe Tatomir, si sente ancora oggi sugli spalti del Lamberti, quando la Cavese arranca o fa fatica ad imporre il suo gioco. Ci vorrebbe Tatomir perché un regista così non si trova facilmente in giro. Ci vorrebbe Tatomir perché ogni allenatore vorrebbe avere nello spogliatoio un atleta serio come lui, punto di riferimento in campo per i compagni e garanzia di impegno e dedizione per i tifosi. Alessandro Tatomir, dal 2004 al 2007, è stato il Capitano, il leader silenzioso della Cavese di Campilongo. Per tre stagioni (87 presenze e 3 reti) è stato il simbolo di una squadra che ci ha fatto sognare. Appese le scarpette al chiodo nel 2010, dopo aver giocato ancora a Gubbio, Giulianova, Chieti e Montesilvano, per Alessandro il passaggio dall’altra parte della barricata è stato naturale: già nella sua ultima stagione a Montesilvano ha chiuso da allenatore/giocatore. Ha continuato a fare esperienza come tecnico nelle giovanili del Pescara; è stato il vice di Campilongo per poco più di due settimane a Nocera in B nel gennaio 2012, poi ha guidato in prima persona Miglianico per tre anni, Renato Curi Angolana e Sambuceto, sempre in Eccellenza. Ora è in attesa di tuffarsi in qualche altra avventura, magari a fianco dell’ex vice di Campilongo, Lello Di Napoli, che lo ha contattato un po’ di tempo fa.

Nato a Roma il 24 settembre del 1972, Tatomir ha giocato in D con Marino, Anziolavinio e Monterotondo. Tra serie C/1 e C/2 ha indossato le maglie di Teramo, Chieti, Fermana e Avezzano, prima di arrivare a Frosinone nella stagione 1997/1998 dove ha conosciuto Sasà Campilongo che all’epoca vestiva ancora i panni dell’attaccante. Ceduto a gennaio ’98 alla Maceratese, ha continuato la carriera con Chieti e L’Aquila per 3 anni e mezzo. Qui nel 2000 ha vinto il suo primo campionato di C/2. Tornato di nuovo a Frosinone nel 2003, ha contribuito alla promozione dei ciociari in C/1 con 27 presenze e una rete. L’estate seguente è stato acquistato dalla Cavese. Tatomir è stato uno dei migliori centrocampisti della nostra storia per capacità tecniche e temperamento. Se a Cava nessuno lo ha dimenticato, è inutile dire che anche Alessandro è sempre molto felice e disponibile quando si parla di Cavese e di quel gruppo meraviglioso che si è fermato a pochi istanti dalla finale play off per la promozione in B.

– Cava mi è rimasta dentro – spiega Tatomir – perché ha un modo di seguire il calcio tutto suo. Io mi sono sentito subito a mio agio, ho vissuto la città con discrezione, sono stato me stesso al cento per cento. Cava è uno dei pochi posti dove non conta solo quello che succede sul rettangolo di gioco durante la partita, è importante anche quello che accade prima. In quei tre anni si era creata un’alchimia fantastica tra la gente, noi calciatori, lo staff tecnico, i dirigenti e i giornalisti. Tutte le componenti remavano dalla stessa parte. Ecco perché è stato possibile raggiungere determinati traguardi.
Alessandro, la Cavese ti contattò all’inizio del mese di agosto del 2004. La squadra era già in ritiro a Rivisondoli da qualche giorno. Come andò la trattativa?
– Conoscevo Campilongo perché avevamo giocato insieme un po’ di anni prima a Frosinone. E’ stato lui a chiamarmi. Io ero in ritiro col Frosinone. Avevamo vinto il campionato di C/2 ed ero stato un po’ il jolly della situazione. Arrigoni nel suo 4-4-2 mi utilizzava in mediana, ma alle volte mi spostava dove c’era bisogno. All’occorrenza, ad esempio a Melfi, avevo fatto anche il terzino. Dopo la promozione il Frosinone aveva cambiato allenatore e il nuovo mister, Dino Pagliari, mi aveva fatto capire che non ero più al centro del progetto. Così, quando Campilongo mi ha telefonato, ci ho pensato un attimo, ma ho deciso di scendere di categoria, accettando la corte della Cavese.
Qual è stato l’impatto con lo spogliatoio biancoblù?
– Non appena sono arrivato a Rivisondoli, ho avuto immediatamente delle sensazioni molto positive. Ho trovato un gruppo motivatissimo, che seguiva le direttive del mister con grande intensità. Dopo il primo allenamento ho subito detto a Campilongo che in quindici anni di calcio non avevo mai visto una cosa del genere. La squadra aveva una fame e una voglia di arrivare incredibile. Credo che nel corso dei tre anni quella fame non sia mai mancata. E’ stata la nostra benzina. Sono stato fortunato a vivere un’esperienza del genere. Dal punto di vista tattico e nelle metodologie di gioco e di allenamento siamo stati degli innovatori.
In che senso?
– Il 4-3-3 è stato il nostro marchio di fabbrica, ma non mi soffermerei troppo sul modulo. Già in allenamento, durante la settimana, c’era un’intensità che si avvicinava molto a quella della domenica. Campilongo e il suo staff erano eccezionali: ci spronavano a dare il massimo, anche nell’amichevole del giovedì. Ragionavamo partita dopo partita, eravamo talmente “mentalizzati” che sembravamo dei soldati, nel senso buono del termine. A livello tattico siamo stati tra i primi in serie C a mettere in atto alcuni principi come il pressing alto, la linea in mediana, l’uno contro uno a tutto campo. Oggi quando sento elogiare, ad esempio, l’Atalanta di Gasperini in serie A e rivedo alcune cose che facevamo noi dodici o tredici anni fa in C, mi rendo conto che all’epoca abbiamo fatto qualcosa di straordinario. Quella Cavese era un laboratorio ed ognuno di noi, con le dovute proporzioni, era un piccolo Steve Jobs che stava gettando le basi della futura Apple.
Campilongo ha sempre detto che la sua prima Cavese è stata quella più spettacolare. Sei d’accordo?
– Assolutamente sì. Giocavamo un calcio frizzante, quella squadra era un giusto mix: aveva l’entusiasmo e l’incoscienza dei giovani e l’esperienza dei più grandi. Aveva in ogni caso dei valori tecnici assoluti. La difesa secondo me era il reparto migliore: tra i pali Mancinelli era una garanzia, sulle fasce Panini e Pagano avevano grande qualità, al centro Catello Mari e Cipriani erano una coppia perfetta. A centrocampo eravamo ben equilibrati; Tony D’Amico, in particolare, avrebbe meritato di fare una carriera ancora più luminosa. In attacco poi gente come Scichilone, Galizia, Placentino e Schetter faceva la differenza. La nostra pecca era la rosa ristretta. Siamo partiti a razzo, ma nel girone di ritorno, quando avevamo bisogno di rifiatare, non avevamo ricambi. Siamo stati costretti a frenare, ma una volta persa la promozione diretta, dal momento che almeno i play off ormai erano garantiti, siamo stati bravi a gestirci e a ricaricare le pile. Negli spareggi siamo tornati competitivi e, dopo aver fatto fuori la Juve Stabia, per poco in finale non siamo riusciti a battere anche il Gela.
Analizziamo meglio la stagione 2004/2005: quale è stata la partita che vi ha dato maggiore consapevolezza della vostra forza?
– Come ho detto prima, giocando e vincendo partita dopo partita, ci siamo ritrovati nelle zone alte della classifica quasi senza accorgercene. La vittoria nel derby di Nocera è stata bellissima, ma la gara che ricordo con maggiore orgoglio è stata quella con il Manfredonia. Il pubblico è stato fantastico, secondo me noi in quella circostanza abbiamo rasentato la perfezione. Non abbiamo mai smesso di giocare, persino nel girone di ritorno quando abbiamo perso sei partite consecutive.
Anche i play off sono stati un’altalena di emozioni incredibili.
– Con la Juve Stabia nelle due gare a porte chiuse ci siamo sbloccati perché non sentivamo la pressione, erano loro i favoriti. Abbiamo preparato le due partite senza trascurare alcun dettaglio. In casa col Gela il rigore sbagliato da Placentino è stato un campanello d’allarme. Sembrava un segnale negativo. Nonostante questo siamo andati in Sicilia con la determinazione e la grinta per giocarcela fino all’ultimo. Eravamo contati, ma abbiamo perso solo ai supplementari. Non dimenticherò mai gli applausi dei tifosi a fine partita. Avevamo dato tutto. Nonostante la delusione, era come se avessimo vinto noi.
Sono passati tredici anni dalla partita di Gela. Quel giorno uno dei protagonisti fu l’arbitro Velotto di Grosseto. La sua direzione non fu proprio cristallina. La Cavese chiuse in nove, per le espulsioni di D’Amico e Tatomir. Un evento più unico che raro nella tua carriera. Ricordi perché il direttore di gara ti mostrò il cartellino rosso?
– Mancavano pochi minuti al novantesimo. Eravamo già in dieci. Tony era stato espulso, e la cosa non ci era andata giù. In quel momento mi trovavo a centrocampo e, per proteggere la palla da un avversario, ho alzato un po’ il gomito, ma non ho fatto e non volevo fare nessun fallo. Non appena ho sentito il fischio dell’arbitro mi sono fermato, ma non avrei mai immaginato che mi avrebbe mostrato il cartellino rosso. Rosso diretto, ti rendi conto? Mentre la nostra panchina è entrata in campo per protestare, io sono rimasto allibito. Non potevo farci nulla, ormai mi aveva espulso. Non so se Velotto abbia voluto deliberatamente condizionare la gara. In ogni caso, di sicuro, non gli eravamo molto simpatici.
Cosa accadde dopo la partita di Gela?
– Rientrammo in aereo tutti insieme. Non sapevamo cosa ci avrebbe riservato il futuro, perché il presidente Cutillo aveva dei problemi. Ci siamo presi un po’ di tempo. Poi quando c’è stato il cambio societario e sono entrati i nuovi dirigenti tutti abbiamo deciso di restare. Volevamo riprenderci quello che ci era stato tolto in Sicilia.
Per ritentare la scalata alla C/1 Nicola Dionisio ha rinforzato il gruppo con acquisti mirati. Nell’estate del 2005 sono arrivati elementi di esperienza come Arno, Nocerino, Pittilino, Aquino e la Cavese ha cambiato pelle. Non è stata più la compagine sbarazzina dell’anno precedente, ma una squadra che sapeva quando e come colpire, anche gestendo al meglio le energie.
– La sconfitta di Gela ci ha fatto crescere, forse non eravamo pronti per vincere il campionato. L’arrivo di uomini più esperti ci ha fatto compiere il definitivo salto di qualità. Avevamo una rosa più ampia e Campilongo sapeva che tutti quelli che già c’erano l’anno precedente erano più maturi. Dopo il pareggio interno con l’Ancona, alla prima di campionato, c’è stato qualche mugugno, ma la vittoria di Gualdo alla seconda giornata ci ha dato serenità e da quel momento abbiamo lavorato senza farci condizionare. Quando abbiamo vinto a Sassuolo, nel mese di dicembre, abbiamo capito che solo noi potevamo perdere la C/1.
Il 15 aprile 2006, battendo in rimonta per 2-1 proprio il Sassuolo, è arrivata la tanto sospirata promozione. Come mai anche uno esperto come te, alla vigilia della gara nel ritiro di Serino, sentiva così tanto la partita da non riuscire a dormire?
– Avevo già vinto due campionati con L’Aquila e Frosinone, ma ammetto che quella notte anche io non ho chiuso occhio. Eravamo tutti tesi, volevamo assolutamente chiudere quel giorno il discorso promozione. Eravamo talmente convinti della nostra forza che non ci siamo mai disuniti, nemmeno quando alla fine del primo tempo il Sassuolo vinceva 1 a 0. Negli spogliatoi non ci siamo detti nulla. Ci siamo solo guardati negli occhi. Non vedevamo l’ora di ritornare in campo e mettere sotto gli avversari.
Mancano pochi istanti alla fine del match, Tatomir passa la palla a Aquino, l’attaccante entra in area e gonfia la rete, proprio sotto la Curva Sud. Lo stadio esplode, è il gol promozione, la Cavese è in C/1. Cosa significa per te ancora oggi quel momento?
– Nel calcio la felicità dura un attimo. Quando finisce la partita ti fai la doccia, ti cambi, poi pensi già all’impegno successivo. Quando Peppe Aquino ha segnato il gol decisivo, mentre tutti impazzivano di gioia, mi sono girato verso la panchina e verso la tribuna dove c’erano i miei familiari: mio padre, mia madre, mia moglie. Li ho guardati, ho capito quello che avevamo fatto, mi sono sentito in pace con me stesso. E’ stato bellissimo. Al triplice fischio mi sono lasciato coinvolgere dai festeggiamenti, poi però non sono andato a mangiare con gli altri, volevo stare con la mia famiglia.
Negli spogliatoi quindi è stata l’ultima volta che hai visto Catello…
– Sì, ma non ricordo bene se ci siamo salutati e cosa ci siamo detti. Certamente nessuno poteva immaginare quello che di lì a poco gli sarebbe capitato. Sono passati dodici anni e ancora mi chiedo se c’è un senso. Credo che il destino di ognuno di noi sia scritto, ma è stato tutto così assurdo. Anche quello che è successo un mese dopo nel Duomo di Cava, quando si è sentito male ed è mancato il giornalista della “Gazzetta dello Sport” Raffaele Senatore. Sembrava di essere in un incubo. Siamo andati avanti per inerzia. Ci siamo allenati e abbiamo giocato le partite successive come degli automi.
Che rapporto avevi con Catello? Giocavate uno davanti all’altro: lui era il baluardo della difesa, tu del centrocampo; tu eri il leader carismatico dello spogliatoio, lui un trascinatore che faceva ridere tutti con i suoi scherzi, ma sapeva anche caricare il gruppo a muso duro se ce n’era bisogno.
– Con Catello l’intesa era massima, non c’era nemmeno bisogno di parlare. Lui era un ragazzo molto intelligente, di sicuro non c’entrava nulla con quella categoria. Era incredibile il fatto che non avesse mai giocato in serie C. Quando l’ho visto in allenamento, immediatamente, mi sono accorto che era una forza della natura: aveva una esplosività mostruosa. In campo eravamo complementari. Io avevo magari più esperienza, lui aveva un’esuberanza dirompente. Era facile giocare con Catello. Al suo fianco ero tranquillo, perché sapevo che se si perdeva palla o qualche avversario ci scappava, arrivava sempre lui a metterci una pezza.
Il terzo anno in C/1 vi siete uniti ancora di più nel suo nome e avete disputato un’altra stagione fantastica.
– E’ stata la giusta evoluzione di un percorso di crescita irripetibile. Ormai giocavamo a memoria e tutti, anche gli ultimi arrivati, non facevano fatica ad inserirsi nel gruppo. Come dimenticare il derby di Salerno, e altre bellissime partite che abbiamo disputato davanti ai nostri tifosi. Peccato solo per la doppia sfida col Foggia. All’andata abbiamo sbagliato a gestire l’ultimo quarto d’ora, quando eravamo in vantaggio per 2-1. Al ritorno, dopo il gol di Tarantino, ormai era fatta…
Ripensi mai a quella maledetta semifinale e al gol di Mastronunzio?
– Certamente. Ti rendi conto che abbiamo subito il 3-1 sugli sviluppi di una rimessa laterale a nostro favore a pochi secondi dalla fine? Non potrò mai dimenticare il silenzio dello stadio al gol di Mastronunzio. Un silenzio che fa male ancora oggi. Lì ho capito che era finito il nostro ciclo, che forse era giunto il momento di andare via perché avevamo raggiunto il nostro apice.
E allora cosa hai fatto?
– Avevo un altro anno di contratto, ma sono stato impulsivo. Quando mi ha cercato il Gubbio, sono andato in sede a parlare con i dirigenti e entrambi, di comune accordo, abbiamo deciso di chiudere. Oggi, con maggiore esperienza e qualche capello bianco in più, dico che probabilmente mi sarei dovuto prendere più tempo per riflettere. Magari sarei arrivato alla stessa conclusione. Oppure sarei potuto rimanere un altro anno, chissà… Ma ormai le nostre strade si erano divise, e anche la società aveva fatto altre valutazioni. E’ andata così, inutile avere rimpianti.
La Cavese è tornata in serie C proprio nell’anno del Centenario. Cosa ti senti di dire ai tifosi?
– Seguo sempre le sorti della Cavese con affetto, sapete bene quanto sono legato ai colori biancoblù. Ogni volta che vengo a Cava provo grandi emozioni. Spero che la squadra possa mantenere la categoria e mi auguro che gli Aquilotti di oggi possano vivere quello che abbiamo vissuto noi. Per un calciatore è il massimo.

Fabrizio Prisco

(fonte Cavese 1919 – http://www.cavese1919.it/ 

Rivista on line di politica, lavoro, impresa e società fondata e diretta da Pasquale Petrillo - Proprietà editoriale: Comunicazione & Territorio di Cava de' Tirreni, presieduta da Silvia Lamberti.

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