scritto da Luisa Franzese - 28 Febbraio 2025 13:48

SCUOLA & DIRITTO Dovere di esclusività del pubblico dipendente ed incompatibilità dello svolgimento di attività extra istituzionali

La giurisprudenza, sia del lavoro, che amministrativa e contabile, nel ribadire l’obbligatorietà dell’azione disciplinare in caso di violazione delle previsioni legislative in materia, applica in modo rigido il principio della esclusività delle prestazioni di lavoro dei dipendenti pubblici che si sostanzia nel dovere di eseguire la propria prestazione lavorativa retribuita solo in favore dell’amministrazione

La disciplina generale della incompatibilità dello svolgimento di attività extra istituzionali con l’assunzione di un pubblico impiego è contenuta nell’articolo 53 secondo comma del decreto legislativo n. 165 del 30 marzo 2001, che statuisce espressamente che “Le pubbliche Amministrazioni non possono conferire ai dipendenti incarichi non compresi nei compiti o doveri d’ufficio che non siano espressamente previsti o disciplinati dalla legge o altre fonti normative o che non siano espressamente autorizzati.”

La giurisprudenza, sia del lavoro, che amministrativa e contabile, nel ribadire l’obbligatorietà dell’azione disciplinare in caso di violazione delle previsioni legislative in materia, applica in modo rigido il principio della esclusività delle prestazioni di lavoro dei dipendenti pubblici che si sostanzia nel dovere di eseguire la propria prestazione lavorativa retribuita solo in favore dell’amministrazione, in ossequio i principi di imparzialità e di buon andamento dell’azione amministrativa di cui all’articolo 97 della Costituzione.

Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 746 del 2024, ha ribadito che, ove si accerti la violazione del vincolo della esclusività della propria prestazione lavorativa, le pubbliche Amministrazioni devono avviare un procedimento disciplinare.

“Anche la giurisprudenza della Cassazione, con riguardo al pubblico impiego privatizzato, ritiene che quando si verifichi un’ipotesi di incompatibilità vengano in rilievo due diversi aspetti: l’uno relativo alla cessazione automatica del rapporto, che per volontà del legislatore si verifica qualora l’incompatibilità non venga rimossa nel termine assegnato al dipendente; l’altro inerente alla responsabilità disciplinare per la violazione del dovere di esclusività, responsabilità che può essere comunque ravvisata anche nell’ipotesi in cui l’impiegato abbia ottemperato alla diffida, secondo quanto espressamente previsto dal Testo Unico. Mentre la prima conseguenza opera su un piano oggettivo e prescinde da valutazioni sulla gravità dell’inadempimento, la seconda è assoggettata ai principi propri della responsabilità disciplinare e presuppone sempre un giudizio di proporzionalità tra fatto contestato e sanzione, da esprimere tenendo conto di tutti gli aspetti oggettivi e soggettivi della condotta. Detta duplicità si riflette sulla natura dell’atto adottato dal datore di lavoro e sull’indagine che deve essere compiuta in sede giudiziale, qualora dell’atto medesimo venga contestata la legittimità. L’istituto della decadenza, infatti, non ha natura sanzionatoria o disciplinare, ma costituisce una diretta conseguenza della perdita di quei requisiti di indipendenza e di totale disponibilità che, se fossero mancanti ab origine, avrebbero precluso la stessa costituzione del rapporto di lavoro, mentre l’incompatibilità riguarda una valutazione astratta con giudizio prognostico ex ante, indipendentemente dall’esistenza di riflessi negativi sul rendimento e sull’osservanza dei doveri d’ufficio, in quanto l’ordinamento ha inteso prevenire con il regime delle incompatibilità il concretarsi del contrasto, inibendo le condizioni favorevoli al suo insorgere”.

L’articolo 53 del decreto legislativo n. 165 del 2001 richiama espressamente il principio generale in materia di incompatibilità e di cumulo di incarichi ed impieghi di cui all’articolo 60 del d.p.r. 10/1/1957 n.3, secondo il quale: “l’impiegato non può esercitare il commercio o l’industria né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fini di lucro” .

Gli incarichi caratterizzati da abitualità e professionalità, ai sensi dell’articolo 60 del d.p.r. 10/1/1957 n. 3, costituiscono un’incompatibilità di tipo assoluto. Indice sintomatico dell’abitualità dell’attività secondaria esercitata in modo continuativo è, ad esempio, l’apertura della partita I.V.A.. Con riferimento alle cariche in società, sia di persone che di capitali, al pubblico dipendente è vietato ricoprire ruoli di amministrazione di gestione, come cariche sociali di amministratore, consigliere e sindaco. Invece, allo stesso è concessa la possibilità di assumere la qualifica di socio nelle società di capitali senza alcuna autorizzazione e nelle società in accomandita semplice la posizione di socio accomandante (la mera titolarità di azioni con conseguente acquisizione dello status di socio è ovviamente compatibile). Nelle società cooperative la giurisprudenza prevalente ritiene che non si ponga il problema di incompatibilità, ma qualora la società cooperativa persegua oltre lo scopo mutualistico anche quello di lucro, bisognerà valutare la prevalenza dello scopo mutualistico e l’impegno del pubblico dipendente nell’assolvimento dell’incarico. I dipendenti pubblici con un impegno orario superiore al 50% devono svolgere la propria prestazione lavorativa esclusivamente per la propria pubblica amministrazione. Essi possono essere autorizzati allo svolgimento di un’ulteriore attività unicamente nel caso di prestazioni occasionali.

Il legislatore nazionale individua, inoltre, alcune attività che possono essere svolte dai dipendenti pubblici pubblici e che non hanno bisogno di una specifica autorizzazione da parte dell’ente, attività che per molti aspetti sono strettamente connesse all’esercizio di diritti tutelati dalla stessa Costituzione.

I dipendenti pubblici anche nel caso in cui siano autorizzati allo svolgimento di una seconda attività lavorativa sono comunque tenuti ad evitare in ogni caso che maturino situazioni di conflitto, anche potenziale, con lo svolgimento del proprio rapporto di lavoro. Il richiamato articolo 53 del decreto legislativo n. 165 del 2001, nella versione modificata dalla legge anticorruzione n. 190 del 2012, accanto alla disciplina delle incompatibilità assolute con lo status di pubblico dipendente (sancite dal testo unico n. 3 del 1957), che determinano la decadenza dall’impiego ove non cessino a seguito di diffida, regolamenta anche le attività non vietate, ma sottoposte ad un regime autorizzatorio, nonché le attività liberalizzate, ossia espletabili senza necessità di autorizzazione datoriale, né di alcun nullaosta.

Gli incarichi autorizzabili richiedono: 1) il carattere della occasionalità e saltuarietà della prestazione; 2) l’assenza di conflitto di interesse con il datore di lavoro; 3) la compatibilità dell’incarico con il rapporto di impiego.

L’articolo 1 comma 42 lettera l) della legge n. 190 del 2012 ha introdotto ulteriori norme in materia di incompatibilità addirittura postuma aggiungendo il seguente comma all’articolo 53: <<16 ter. I dipendenti che negli ultimi tre anni di servizio hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, non possono svolgere nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, attività lavorativa o professionale presso i soggetti privati destinatari dell’attività della pubblica amministrazione svolta attraverso i medesimi poteri. I contratti conclusi e gli incarichi conferiti in violazione di quanto previsto dal presente comma sono nulli ed è fatto divieto ai soggetti privati che li hanno conclusi o conferiti di contrattare con le pubbliche amministrazioni per i successivi tre anni con obbligo di restituzione dei compensi eventualmente percepiti e accertati ad essi riferiti>>.

Le disposizioni di legge e di regolamento che vietano l’iscrizione in albi professionali non si applicano ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale, con prestazione lavorativa non superiore al 50% di quella a tempo pieno.

In virtù di tali norme per i soli lavoratori in part-time ridotto sono state abrogate tutte le disposizioni che vietano lo svolgimento di altre attività di lavoro e di quelle che impediscono l’iscrizione ad albi professionali. Con riferimento all’esercizio dell’attività forense, l’articolo 19 della legge n. 247/2012 statuisce che l’esercizio della professione di avvocato è compatibile con l’insegnamento o la ricerca in materie giuridiche nelle università nelle scuole secondarie pubbliche e private parificate, nelle istituzioni ed enti di ricerca e sperimentazione pubblici. Ad una prima lettura della norma sembrerebbe che l’esercizio della professione forense sia consentito ai soli docenti delle scuole secondarie.

Così argomentando, si escluderebbero dal novero dei soggetti abilitati all’esercizio della professione i docenti di scuola primaria, che invece, godendo della medesima libertà di insegnamento ed essendo in possesso della laurea, non dovrebbero ricadere nell’incompatibilità, in ossequio al principio costituzionale di uguaglianza.

Laureata in Giurisprudenza, Avvocato,

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