scritto da Tina Contaldo - 09 Dicembre 2022 18:08

POESIA I migranti “anemoni” di Antonella Anedda

È così che gli anemoni di mare vengono rievocati da una poesia all’altra e fanno risaltare una domanda embrionale: che ruolo si ha nella vita

foto di Tina Contaldo

Ricordo l’impellente urgenza di scrivere della vita dei migranti. Pensai che la forma più adatta fosse la poesia.

Ma pregnante era il timore di non rendere giustizia a quelle vite che percorrono all’infinito terre di nessuno, per approdare ad infiniti dolori e spiragli di speranza.

Poi un ulteriore timore fece capolino nella mia riflessione, nel mio dialogo interiore sulle forme letterarie in relazione ai diritti umani: non avendo vissuto quelle vite ad una ad una, non avendo incrociato gli occhi di quelle persone, non avrei potuto avere le competenze di parlar di loro.

Eppure, quelle sagome, di cui l’onda del mare diventa ombra, io le avevo sognate. Ho sognato in frammenti la loro storia e assorbito, sognando, il loro dolore.

Dopo tutto, cos’è la conoscenza? Non mi dilungherò su questo argomento ma credo che per parlare di vite umane si debba parlare all’assemblea umana non descrivendo, bensì sollevando una problematica.

Cosicché a lungo dubitai dei miei scritti, finché non incrociai una raccolta di poesie della poetessa Antonella Anedda: “Historiae”.

Nell’introduzione poetica di Historiae, la poetica frammentaria, “poligonale” e fitta della Anedda mi fece notare che per fare poesia si attinge ad un serbatoio di parole che si rendono al poeta attraverso un io collettivo.

È così che gli anemoni di mare vengono rievocati da una poesia all’altra e fanno risaltare una domanda embrionale: che ruolo si ha nella vita degli altri? Siamo attivi o passivamente compatiamo l’altro?

Fitte diventano allora le sequenze di frasi e fitta è l’intertestualità della raccolta; un dialogo infinito tra l’io e quello che ci ha preceduti, approdando poesia dopo poesia a quello che ci succederà.

Una profezia emozionale allegorica che ci porta alla vera poetica di Historiae.

Si ha qui la necessità di essere e divenire netti, non più “poligonali” ma raccontare, descrivere ed evocare ciò che più di tutto caratterizza l’essere umano: la perdita di comunicabilità dei nostri giorni.

Ma Anedda sa che la parola scritta rende le immagini parte di una storia comune alla quale è impossibile sottrarsi.

E se l’immaginato diventasse conoscenza per affrontare le problematiche odierne, saremmo comunque bloccati da una pulsione scopica, sottraendoci alla canalizzazione e applicazione di regole non scritte sul bene comune?

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