Credo che nell’animo di ogni musicista ci sia l’intento di trasferire certe proprie cognizioni didattiche e tecniche non solo a neofiti o studenti ma anche ai propri pari.
Nel caso dei jazzisti in particolare tale tendenza è l’urgenza, se non la necessità, di rendere universali la propria concezione di ‘improvvisazione’.
Conosco Paolo Palopoli da più di qualche decennio, accompagnatore fedele nelle presentazioni dei miei libri sul jazz, fine chitarrista e grande professionista del plettro, che più di una volta ha dimostrato l’innata dedizione e competenza al proprio strumento.
La scopo di questo suo libro è di assistere sia il docente sia lo studente nell’insegnamento dell’armonia e dell’improvvisazione jazz.
Jazz e improvvisazione: due parole che tutti sappiano perfettamente di cosa si tratta – e il fatto che a una persona piacciano o no, è spesso basato su un ascolto casuale di un qualche settore limitato della musica. Non c’è da meravigliarsi che tutto questo crei grande confusione. Basta fermarsi a pensare al caos che scoppierebbe se la gente credesse di saperla così lunga – e questo è quanto è successo per motivi troppo complessi per essere analizzati ora – su qualsiasi altra forma d’arte.
Credo che da ciò sia nata la spinta emotiva di Palopoli nello scrivere questo ‘Manuale’, anche per sgomberare il campo da equivoci o falsi miti. Le giustapposizioni sono assurde, tuttavia tanti musicisti si creano simili pregiudizi riguardo all’improvvisazione jazzistica.
È soprattutto un’espressione creativa dell’individualità di un musicista. Ci sono molto spesso “coloriture” su questa individualità, come spiega l’autore, che esamina ogni aspetto della didattica partendo dagli ‘intervalli’ fino alle ‘principali armoniche del jazz’, passando attraverso le infinità delle ‘scale’, dei ‘block chords, e quant’altro. Palopoli analizza i ritmi regolari delle sezioni ritmiche e un’ampia variazione nel timbro strumentale derivato soprattutto da quelle che sono conosciute come fonti afroamericane – ma non sono sempre necessarie.
Per quanto insufficiente possa risultare la definizione, e anche in parte coincidente con altre forme musicali, è l’unica abbastanza estesa da ricoprire la varietà di generi classificabili come jazz.
Va tenuto anche presente il messaggio che il bavo chitarrista napoletano vuol mandare, ossia che il jazz non dovrebbe essere valutato in rapporto alla “musica convenzionale”; naturalmente entrambe usano lo stesso linguaggio di base (come del resto fanno la poesia, la prosa e il teatro, ma nessuno si sogna di fare un parallelo, in termini assoluti, tra l’Amleto, l’Ulisse e The Four Quartets) tuttavia, c’è ancora qualcuno che considera l’improvvisazione jazzistica come un parente povero perché non possiede le qualità della musica convenzionale. Credo che una buona improvvisazione abbia qualcosa di esclusivamente suo da offrire.
Come disse il compositore Bill Mathieu parlando delle collaborazioni tra Gil Evans e Miles Davis, “l’essenza del loro discorso e l’unione dell’idea con l’emozione, della pre-composizione con l’improvvisazione, della disciplina con la spontaneità”, e questa definizione può applicarsi anche a quest’ottimo manuale di jazz.