Solo la nostra casa nutre l’ambizione di raccontare, con precisione, cosa siamo.
Ma, ahi noi, è sempre una narrazione capovolta, frutto di errori e continui aggiustamenti. Talvolta traslochi.
Una storia che, dall’ultima pagina, si può leggere solo tornando indietro.
Se non lo avete ancora fatto, procuratevi in qualche modo “Parasite”, film coreano del 2019, palma d’oro a Cannes e vincitore di 4 premi Oscar, tra cui miglior film (più decine di altri riconoscimenti) e trovate due ore di tempo per guardarlo.
Rimarrete impressionati di quanto ci si possa sentire fisicamente proiettati in un luogo chiuso, un’abitazione, percependone gli odori e il respiro delle mura, scorgendone la polvere sottile galleggiante nei fasci di luce che penetrano dalle finestre.
Fino a riconoscerla familiare senza averla mai conosciuta.
Ma “Parasite” non si limita alla narrazione di uno spazio.
Le case, perché sono più di una, di “Parasite” certificano un’appartenenza. Svelata più efficacemente lungo la verticalità delle scale, dove ogni tragitto è un dramma.
Il disperato arrampicarsi o precipitare di classi sociali in silenziosa guerra.
Guai ad invertire l’ordine: ad ogni miscelazione dei destini umani corrisponde un imprevedibile epilogo tragico.
Brindino pure felici nell’attico i nobili, mentre i parassiti, nel piano interrato del mondo, bramano aria e luce.
Ogni architetto dovrebbe guardare “Parasite”.
Per provare la meraviglia di sapere che, in realtà, quella casa non esiste.
Han Ji-Won e Bong Joon-Ho, sceneggiatore e regista di “Parasite”, l’hanno costruita solo dopo aver scritto tutto il film, modellandola sui movimenti di macchina.
Un capolavoro di tecnica e cinema, laddove la storia, fortunatamente, si conosce prima.
(foto tratta da Wikipedia)
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