Sarà forse una mia ossessione.
Causata dalla venerazione che coltivo nei confronti di un simbolo dell’architettura italiana, ma tutte le volte che passo da Maiori, proprio non riesco ad ignorare un’analogia.
E così, in una palazzina dinanzi al lungomare, rincontro una sorta di Casa del Fascio in miniatura.
Non una qualunque delle centinaia costruite durante il ventennio in Italia, ma la più nota.
Là, rivedo un clone del capolavoro comasco di Terragni.
Pazienza se la geometria delle logge è differente, manca l’asimmetria del prospetto e naturalmente il vuoto centrale e centomila altre cose. Pazienza.
L’occhio seleziona le affinità, se le intravede le abbina; l’immaginazione fa il resto.
Sulla Casa del Fascio di Como sappiamo praticamente tutto, ma molto spesso conosciamo poco delle sue repliche sparse per la penisola.
Volontarie o involontarie che siano. Cloni colti o semplici “pezzotti”.
Nel caso della palazzina maiorese si potrebbe fare una ricerca: rintracciare notizie sull’edilizia degli anni sessanta non è un’impresa.
Si potrebbe dare un significato nuovo a quell’edificio, ignorato per mezzo secolo, abitato da inconsapevoli inquilini che sciorinano panni e celano, come possono, le unità esterne dei condizionatori.
Tuttavia eviterei: sarebbe spiacevole apprendere, viceversa, che non v’erano velleità d’architettura, che il costruttore ignorasse Terragni, che c’era solamente bisogno di un cubo con dodici appartamenti a basso costo (ma vista mare).
Ma se fosse ancora vivo, l’autore farebbe ancora in tempo ad iscriversi alla lista dei citazionisti; d’altronde in architettura nessuno copia: tutti citano.
E, per un singolare meccanismo della mente, gli architetti visionari, normalmente ossessionati, vedono solo ciò che desiderano vedere.
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