Scrivere dell’ultima fatica letteraria di Domenico Starnone per me, che lessi un suo libro la prima volta più di 30 anni fa (“Ex cattedra”) è esercizio piuttosto complicato. Ma lo sarebbe comunque perché “L’umanità è un tirocinio” (G. Einaudi editore), non è un libro nel senso tradizionale del termine, ma un tragitto variegato e laborioso attraverso una serie di brevi saggi, che lo scrittore napoletano ha scritto a partire dal 1985 e pubblicato sotto forma di contributi in raccolte, prefazioni per altri libri, atti di seminari ecc..
Una sorta di breviario, tanto vitale quanto indispensabile, dove l’anima dello scrittore rincorre, incontra e affronta (talvolta completa) quella del lettore.
Definendo Domenico Starnone un maestro della letteratura italiana, non compiamo nessuna iperbole, vincitore del Premio Strega nel 2001 con “Via Gemito” (del quale i romanzi di Elena Ferrante possono essere considerati una sorta di spin off) si è dedicato anche al teatro dopo aver lavorato alle sceneggiature per il cinema (“La scuola”, “Auguri professore”, “Denti”) e redatto per molti anni rubriche per i maggiori quotidiani italiani.
Brevissima storia dell’autore utile a comprendere l’esordio dell’”Umanità..”: “Questo libro è un frutto della vecchiaia. Il periodo meno assennato dell’esistenza” scrive.
Da questa premessa, attraverso un ritratto di lettore avventato, e senza nessuna vanità cronologica, Starnone ci conduce attraverso una serie di osservazioni sui libri che ha amato di più e sul mestiere di scrittore, che intraprese sul serio solo dall’età di 40 anni poiché indeciso, scettico, deluso da ciò di suo che leggeva: “Ho l’impressione che scrivere comporti la pena di non essere in grado di leggersi” valutandosi, di conseguenza, inadeguato alla pubblicazione: “Per fare letteratura bisogna avere quasi sempre o un’altissima opinione di sé o una bassissima della letteratura o entrambe le cose”.
Un lungo apprendistato che, dopo ottanta primavere, non ritiene concluso poiché, sommessamente, non ancora libero da timori e da incertezze primordiali.
Paure rabbonite, metodicamente, con lo stratagemma dell’ironia “un salvagente (…) una forma di socializzazione del malumore”, così come maneggiata alla perfezione da uno dei suoi preferiti, Mark Twain, in “Una cura per la tristezza” (Terapia per letterati, 1991).
Medicina per quei dubbi atroci che gli conferiscono una naturale simpatia per Arturo Bandini, lo scribacchino tragicamente privo di talento alter-ego di John Fante o lo portano ad immedesimarsi in Roberto Bazlen, potenziale ma irresoluto e sterile scrittore de “Lo stadio di Wimbledon” narrato da Daniele Del Giudice (il fischio e i topi, 2015).
Un mestiere appassionato condotto all’insegna del pudore, virtù del narratore «disonesto»: “Ciò che è realmente accaduto deve cedere alla disonestà del narratore perché il racconto diventi vero” (Disonestà del racconto, 1992), ed esercitata senza la malizia con la quale Angelo Poliziano, servo del padrone Lorenzo De’Medici, ne ottiene le grazie donandogli i libri de L’Iliade (Servizio, 1994); libero cioè dai doveri di “servizio” degli intellettuali che hanno svuotato il senso di responsabilità e distrutto ogni tipico rovello del senso etico.
Accanto a questi attrezzi del mestiere, Starnone snocciola una serie di ricordi, accostamenti, suggestioni, materiale usuale del buon insegnante di lettere. E così scopriamo la sua amarezza dinanzi a tutti i Franti da libro “Cuore” che la scuola ha punito e abbandonato (Paura di Franti, 1993). Ritroviamo i dolori di Jacopo Ortis spiegato ai suoi alunni (Il ritratto insanguinato. Racconto scolastico, 1994) e la questione del romanzo epistolare (è vero romanzo?) di Cesare Pavese in “Lavorare stanca”. Riemerge il dramma della giovinezza svanita in “Ferito a morte” di La Capria (I segni delle ferite, 2006) e il tormento dell’incomunicabilità in “Fratelli” di Carmelo Samonà (La fratellanza inquieta, 2006).
Ma siccome Dio è nei dettagli, Starnone dedica un capitolo anche a Raymond Carver, maestro del racconto, e al suo universo di persone in lotta contro qualcosa di cui nessuno sa davvero l’origine e il destino: “Il gesto splendido con cui il narratore chiude la vestaglia che s’è aperta sulle gambe della moglie che si è addormentata e poi dà un’occhiata al cieco e gliela riapre” in “Cattedrale” è indubbiamente uno di quei particolari indimenticabili della letteratura contemporanea (May-awe).
Confesso, dopo un omaggio così potente per l’adorabile Carver, sono diventato troppo di parte, non la persona più adatta a scrivere di Starnone e di “L’umanità è un tirocinio”.
L’ho letto con la brama di chi cerca soluzioni misteriose e illuminanti, così per poterne trattare ho dovuto rileggerlo, e probabilmente mi capiterà di cercarlo ancora per farlo nuovamente.
Credo contenga mille domande sul ruolo dello scrittore e forse ancora, nel numero, più risposte; ammesso che, lungo il tirocinio dell’umanità, ne esistano davvero.
D’altro canto: “Siamo organismi che non fanno che raccontarsi e raccontare, ma che non sanno, non possono sapere veramente, cosa sta succedendo”.
P.S.: A Domenico Starnone e a “L’umanità è un tirocinio” rende omaggio la XI^ edizione del “Salerno festival letteratura” in programma dal 17/24 giugno nel centro storico di Salerno. A Starnone è stata affidata la prolusione della manifestazione che si terrà domenica 18 giugno, alle ore 20 nell’atrio del duomo.
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