Non è certo noto per le architetture che ha progettato e realizzato, Bruno Zevi, probabilmente l’italiano più influente nella storia dell’architettura del novecento.
L’attività di architetto di Zevi fu marginale se paragonata a quella di urbanista, politico, storico, critico e accademico.
Emigrato negli Stati Uniti per sfuggire alle leggi razziali (era di famiglia ebraica), nel 1942 si laureò alla Graduate School of Design della Harvard University, in quel momento diretta da Walter Gropius.
Tornato in Italia, ammaliato dal linguaggio Wrightiano, promosse l’architettura organica fondando l’APAO e dando alle stampe “Verso un’architettura organica”. Il primo dei suoi testi che hanno formato generazioni di studenti di architettura.
Non tutti sanno che una delle poche architettura firmate da Bruno Zevi, è a Salerno.
Nel piano regolatore varato dal Comune di Salerno nel 1953 era prevista una quota per l’edilizia economica e popolare gestita dall’INA-Casa. Interventi che si concretizzarono solo dopo la legge proroga del 1955 e che permisero la costruzione, tra l’altro, del quartiere “Serpentone” o quartiere Zevi.
E’ più che probabile che il contributo di Zevi, che dei progettisti fu il capogruppo (gli architetti furono: I. Balletti, M. Calandra, A. Di Carlo, L. Ronchi e l’ingegnere L. Rubino) si ridusse al disegno urbanistico dei vari lotti, tra cui il più riuscito è senza dubbio quello dalla caratteristica forma ad “U” subito ribattezzato dagli abitanti del quartiere Pastena: “Ciampa di cavallo”, intesa come la zampa, ovvero il ferro del cavallo. Noto amuleto.
Comprese Zevi l’araba fenice dei rioni popolari: fare un recinto ma lasciarlo aperto.
Intimo ma non privato: la città entra nel quartiere e il quartiere non esce dalla città.
Dopo quasi 70 anni, il Rione Zevi gode di buona salute. Il tipo di architettura con l’uso ossessivo del mattone contrassegna la qualità delle facciate. Una ricercatezza ancora visibile nonostante le superfetazioni, inevitabili, avvenute negli anni.
Ancora funziona l’esperimento sociale di inserire nel quartiere non solo residenze, così come il disegno complessivo col tentativo di cucire la frattura della ferrovia e la varia aggregazione delle unità.
Se oggi all’interno del “ferro di cavallo” si svolgono regolarmente iniziative e spettacoli, non è questione di fortuna.
In una città impegnata a costruire desolate torri inabitate, l’utopia della casa sociale, orizzontale, sfumata nel verde dei cortili, è insieme ossigeno e miraggio.
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(La foto di copertina è tratta da un articolo di D. Magliano pubblicato su salernonews24.com)