CINEMA Parthenope, per vedere Napoli sotto una luce diversa
Parthenope, ultima opera di Paolo Sorrentino, ha diviso la critica: fra chi inneggia all'ennesimo capolavoro del regista campano e chi, invece, lo ritiene esasperato e inconcludente, non esiste via di mezzo. Ma siamo sicuri che l'obiettivo del film sia questo o esistono altri spunti attraverso cui guardarlo?

A diversi giorni dalla sua uscita, datata 24 ottobre, sono finalmente riuscito a vedere “Parthenope“, ultima fatica di Paolo Sorrentino. Descrivere concretamente cosa rappresenti questo film non è stato per niente facile: terminata la proiezione, sono uscito fuori dal cinema tirando uno dei più classici respiri “a pieni polmoni”, quasi in apnea dopo due intensissime ore. La quantità di spunti e le riflessioni che ne derivano sono molteplici, a volte nascoste o spesso troppo appariscenti: innumerevoli sono state le parole spese in merito, tra chi grida al capolavoro e chi, invece, non lo ritiene all’altezza delle pellicole precedenti.
Parthenope, perché così divisivo?
Una definizione su cui chiunque pare essere d’accordo è dunque la sua capacità di dividere i giudizi. Ma d’altronde, un film incentrato su Napoli poteva essere da meno? La città del Vesuvio da sempre vive una forte contrapposizione: da un lato le sue bellezze paesaggistiche e di folklore, un attaccamento quasi esasperato alla propria identità e un patrimonio artistico-culturale di valore inestimabile, fanno da contraltare alla malavita, alla povertà e a tutti quegli aspetti negativi di cui tutti, più o meno, abbiamo sentito parlare. Frutto di questo archetipo, non potevamo aspettarci quindi un esito differente sulla risposta del grande pubblico, dopo la sua visione.
Luci e ombre del capoluogo partenopeo emergono sistematicamente, da quegli attimi di “vita lenta” di cui Napoli si permea, fra i suoi incanti, il mare e l’amore dei suoi cittadini, fino al disprezzo stesso che ne deriva per la città, chiedere a Greta Cool, rappresentata da Luisa Ranieri (con puntuale smentita, ad opera di Sorrentino stesso, di un omaggio a Sophia Loren).
Un altro aspetto che lascia sconcertato lo spettatore è l’assenza di una trama ben definita, all’apparenza: la sequenza di storie che ci appaiono sembrano non seguire il classico schema specifico di ogni film, a cui siamo ormai abituati, in cui gli attori perseguono un obiettivo tra mille peripezie. Questa prospettiva è una peculiarità tutta sorrentiniana (un esempio su tutti? La Grande Bellezza), in cui ogni scena è collegata, impercettibilmente, da un filo nascosto che lega la storia. Il finale, infatti, renderà chiaro il sogno della protagonista e tutte le vicende da lei vissute nel corso della sua vita.
Una bellezza elusiva, alla ricerca di altri canoni
Parthenope, interpretata da un’impeccabile Celeste dalla Porta (al suo esordio cinematografico), incarna Napoli in tutta la sua essenza. Ad un primo approccio, ciò che buca lo schermo è tanto la bellezza dirompente della giovane, che ammalia e affascina chiunque la incroci, quanto il suo atteggiamento sfuggente, che la rendono elusiva e desiderata allo stesso tempo. Se in “È stata la mano di Dio“, la massima adottata da Fabio Schisa era “Non ti disunire“, per Parthenope spettano invece i più esortativi “Lasciati andare” e “A cosa stai pensando?“, spesso pronunciati da Raimondo, fratello della protagonista, interpretato da un magistrale Daniele Rienzo.
Ma cosa vuole davvero Parthenope? Perché non si lascia davvero mai andare? La ricerca del bello, visto come canone estetico, non sembra incidere nelle scelte della protagonista, che vive invece costantemente accompagnata da questo forte giudizio nei suoi confronti. Le sue scelte passionali, nel corso del film, ricadono su soggetti che, richiamando un termine molto in voga in questi giorni, sono contornati da una forte “aura“: dallo scrittore John Cheever, interpretato dal mai banale Gary Oldman, le cui opere hanno incantato la protagonista a tal punto da spingerla a concedersi a lui (respinta con un degno plot-twist), passando per il professore Marotta (Silvio Orlando, uno dei personaggi più riusciti), che indica la strada a Parthenope indirizzandola verso l’antropologia, la vera vocazione della giovane, fino al cardinale Tesorone, in una delle scene più surreali dell’intero film.
Parthenope vuole sovvertire quelli che sono i più classici standard estetici, non sfruttando dunque a suo favore il grande vantaggio che la natura le ha donato, focalizzando invece la sua attenzione su degli aspetti più introspettivi e nascosti che le persone possono offrire.
Qual è dunque la giusta chiave di lettura di Parthenope?
Come già detto, interpretare quest’opera, quantomeno a primo impatto, è davvero compito arduo. Ho avuto modo, in seguito, di approfondire e provare a dare una chiave di lettura che prescindesse dal giudizio “tecnico” (non credo di aver ancora i requisiti per potermi permettere ciò).
Uno spunto importante per riflettere mi è stato offerto, guarda caso, da uno dei protagonisti della pellicola. Ho avuto l’opportunità di seguire al Cinema Fulgor, splendido teatro al centro di Rimini, la presentazione del film, con la partecipazione di Celeste dalla Porta e di Daniele Rienzo. L’attore, originario proprio di Napoli, ha indicato il film come uno dei primi a guardare la città sotto degli occhi diversi, per coglierne tutte le sfumature che la caratterizzano e rompendo, dunque, questa forte contrapposizione di cui prima abbiamo parlato.
Questa visione si ricollega perfettamente alla vocazione di Parthenope, l’antropologia, e alla sua curiosità per ciò che non è evidente alla luce del Sole, come una bellezza impattante, ma a quegli aspetti più reconditi che si celano in noi, positivi o negativi che siano.
Napoli ha bisogno di superare tutti gli stereotipi che la caratterizzano, per svincolarsi da questa visione bilaterale di cui soffre da troppo tempo ormai. Sorrentino ci regala una panoramica sulla città più dominante del momento, attraverso un punto di vista alternativo e più libero.