scritto da Rosa Montoro - 09 Marzo 2018 09:06

CINEMA La Forma dell’acqua

Oggi voglio raccontarvi di come si sono incrociati nelle mie riflessioni un film e un libro. Voglio raccontarvi come il terreno simbolico fa diventare tutt’uno la sostanza delle “cose” di cui viviamo  e di cui si nutre il nostro pensiero.

Il film è La Forma dell’acqua di Guillermo del Toro che ha vinto il Leone d’oro al festival di Venezia 2017 e quattro statuette all’ultima edizione degli Oscar con ben tredici nomination. Il libro è Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna di Massimo Recalcati Raffaelo Cortina Editore – seconda edizione 2017.

Cosa rende possibile quest’incontro?

Prima di tutto la visione del film nel periodo in cui ho letto il libro, ma anche l’associazione di una serie di riflessioni, di cui vi parlerò, e in particolare l’idea dell’Altro, il Mostro, il Diverso, che non si può “ridurre alla supponenza del nostro sapere … che ci educa all’insufficienza, all’apertura al mistero”. ( Recalcati cit. p. 3)

Il film è ambientato agli inizi degli anni sessanta, in piena guerra fredda, nell’America maccartista rigida e piena di paure, che si sente continuamente minacciata da forze estranee. L’America fondata su un apparato normativo di repressione. Elisa Esposito è muta, vive emarginata, ultima con gli ultimi: coinquilino gay e amica di colore.  Nel film il Mostro viene evocato (una scena poetica in cui lei porta del cibo sul bordo della vasca dove lui vive) da una preghiera che può essere recitata solo da chi si è confrontata, come lei, con il limite. Elisa è una “figlia di Dio” (Esposito è il cognome che veniva dato agli orfani), a lei il mostro non fa paura, ha dovuto confrontarsi con cose più mostruose, da bambina le hanno tagliato le corde vocali. Per chi ha visto il Mostro della laguna nera, il film diretto da Jack Arnold nel 1954, conosce la sensazione di terrore che fa l’acqua quieta e immobile, che, come tutte le “cose certe”, nasconde nel fondo quello che ha escluso e che, da un momento all’altro, può riemergere.

Il film di Del Toro ci descrive un laboratorio scientifico militare, una struttura istituzionale classica gerarchica che, nel libro di Massimo Recalcati ha il suo corrispettivo nella famiglia patriarcale, con a  capo il pater familias. Il feroce agente governativo Richard Strickland, come un pater familias deve mantenere l’ordine, la legge. E naturalmente parliamo della legge Americana, che nel film corrisponde alla verità assoluta, dettata dal cielo, una verità che sacrifica ogni altra idea e desiderio. Eppure Richard è attratto dall’impossibile, dal limite che si rivela nel massimo godimento con la moglie a cui chiede di non parlare, rimanere muta (è attratto da Elisa proprio per questo). Siamo di fronte a quel che la psicanalisi definisce castrazione simbolica, dice Recalcati in Cosa resta del padre?, la legge “sorge sulla definizione di un impossibile … il godimento incestuoso” ” (Recalcati cit. p. 54). Se noi conosciamo ciò che è proibito possiamo violarlo, Richard è il custode della legge, non può fallire, non può mostrare le sue debolezze, come un pater familias, ma è tentato anche lui di ribellarsi. Il film ha un finale significativo (che non raccontiamo) considerato il periodo storico, che apre alla rottura degli anni Sessanta. Però un segnale importante lo troviamo nella morte del custode della legge.  “Tu sei divino” dice Richard al mostro prima di morire, riconoscendo all’altro un potere, mentre sente evaporare il suo. Il sessantotto personifica per Lacan e per Massimo Recalcati questo: l’evaporazione del padre. Sono gli anni di rottura che hanno lasciato all’Occidente libertà individuali inimmaginabili nei secoli precedenti, ma questa conquista coincide con l’egemonia del discorso capitalistico, come ci dice Pasolini, “i sudditi diventano consumatori, saremo dominati dalla credenza che il soggetto è libero, senza limiti, agito solo dalla sua volontà di godimento, inebriato dalla sua avidità di consumo” (Recalcati cit. p. 27)

L’evaporazione del padre autoritario e totalitario non elimina la sua funzione (qualsiasi forma prenda la famiglia contemporanea), il padre lega il desiderio di godimento alla legge, che pur senza discendenza divina, è quella che ci permette di passare dal godimento animalesco e senza freni, al desiderio umanizzato che richiede la consapevolezza che “non si può godere di tutto, come non si può sapere tutto … non si può dominare il mistero della vita e della morte”. (Massimo Recalcati cit. 42) La parola stabilisce la legge del desiderio, ci fa vedere i limiti, ma anche fin dove possiamo desiderare e perseguire le nostre passioni. Attraverso il linguaggio l’uomo ha un identità, un nome e prende atto che non vive solo di cibo ma ha bisogno anche di segni, simboli. L’appartenenza e l’identità è un bisogno fondamentale quanto il cibo e il padre (o chiunque ricopre questa funzione) traghetta il figlio nel mondo simbolico, lo aiuta ad investire sui suoi desideri, che non hanno niente a che fare con la verità, ma piuttosto con la fede e la tenacia di chi ha una direzione. Riuscire ad unire legge e desiderio significa lasciare la “Torre di babele, la tracotanza boriosa degli esseri umani che vorrebbero oltrepassare ogni senso del limite” (Recalcati cit. p. 43), ecco dove il film ed il libro “dialogano”.

A 50 anni dal sessantotto quel che resta del padre esclude un ritorno al pater familias che non riconosceva ciò che è diverso, che dominava con la legge del paura. Il padre che resta non nega i limiti umani, ma promette di essere testimone dell’alleanza tra legge e passione, non pretende di trasmettere la verità di un dio, ma quella di un essere umano che sa tenere insieme le sue scelte e le sue azioni. Il conflitto generazionale è già un riconoscimento dell’alterità, un padre deve aiutare il figlio a trovare il giusto equilibrio tra appartenenza e erranza” (Recalcati cit. p. 65), mantenendo il legame con le sue radici ma anche cercando la sua strada.

In questo libro, però, restano fuori tutti i temi connessi alla struttura sociale che non valorizza la funzione paterna e  genitoriale, non si preoccupa della dignità di questo ruolo, anzi lo lascia volutamente ai margini per avere cittadini che esaltano un cinico materialismo concentrato sulla pulsione del godimento, in altre parole: consumatori senza futuro.

In questo quadro quale influenza può avere un padre che vive del suo lavoro precario e non riesce, nonostante gli sforzi, a mantenere dignitosamente la sua famiglia? Quale ascendente può avere un padre chiedendogli di investire sulla sua preparazione e capacità se la competizione risulta falsata e truccata in partenza? Quale ascendente può avere un padre che non riesce a mantenere un figlio all’Università anche se conosce la sua bravura, mentre vede il compagno di liceo che si iscrive ad università private (con finanziamento pubblico)?

Ci lasciamo con queste domande terribili che ancora una volta ci riportano al tema della dignità del lavoro e dei diritti di cittadinanza costituzionali.

 

La Forma dell’acqua – Elisa Esposito è una donna affetta da mutismo, a causa della recisione delle corde vocali da bambina. Lavora come addetta alle pulizie in un laboratorio governativo dove vengono effettuati degli esperimenti atti a contrastare la Russia durante la Guerra Fredda. I suoi due unici amici sono la collega afroamericana Zelda e l’inquilino gay Giles, coi quali condivide una vita di solitudine ed emarginazione. Un giorno al laboratorio viene portata una cisterna contenente una creatura anfibia dall’aspetto umanoide: è stata catturata in Amazzonia dove gli indigeni locali la veneravano come un dio. Elisa rimane molto affascinata dalla creatura, e comincia a vederla di nascosto portandole del cibo e insegnandole a comunicare tramite la lingua dei segni.

Massimo Recalcati vive e lavora come psicoanalista a Milano. Ha insegnato nelle Università di Padova, Urbino, Bergamo, Lausanne. Attualmente collabora con riviste specializzate, nazionali ed internazionali:“Aut Aut”, “Pedagogika”, “Lettera”, “Psycanalyse”, “Revue de la Cause freudienne”, “Clinique Lacanienne”. Ha scritto per le pagine culturali de “Il Manifesto” (2001-2013) e de “La Repubblica” (dal 2011). Ha pubblicato numerosi saggi i più noti, per citarne solo alcuni, sono dei veri best-seller: Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, Milano 2013, Le mani della madre. Desiderio, fantasmi ed eredità del materno, Feltrinelli, Milano 2015, l mistero delle cose. Nove ritratti di artisti, Feltrinelli, Milano 2016, I tabù del mondo, Einaudi, Torino 2017 e Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina, Milano 2011 – seconda edizione 2017.

Rosa Montoro è nata a Sarno e vive a Cava de’ Tirreni, laureata in Sociologia lavora in un ente pubblico, è sposata e ha due figlie. Ha ricevuto vari premi per la poesia, nel 2017 ha pubblicato "La voce di mia madre", una raccolta di poesie inserita nel catalogo online “Il mio libro” – Gruppo editoriale Espresso. Per la narrativa è stata premiata nel 1997 per il racconto "Il cielo di Luigino" pubblicato nel testo collettaneo “Nuovi narratori campani” dell’editore Guida di Napoli. Lo stesso editore ha pubblicato nel 2000 il romanzo breve "Il silenzio della terra" premiato nel 2001 al Concorso Europeo di narrativa “Storie di Donne” FENAL circoli europei liberi, secondo premio. Infine, "Il Circolo degli illusi", edito da Oedipus - 2018.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.