“5 è il numero perfetto”, l’ultimo film interpretato da Toni Servillo, del regista e sceneggiatore Igort, appena presentato al 76° Mostra Cinematografica di Venezia, è un piccolo affresco napoletano che ha riscosso immediatamente il plauso della critica, ma specialmente del pubblico.
Ho voluto vederlo appena in circolazione per due motivi: il primo è che da qualche tempo le sale cinematografiche non sono più stabili nelle loro programmazioni, nel senso che un film lo proiettano un giorno e il giorno dopo non è più in cartellone, poi magari lo rimettono in programma per un’altra serata, e per un’altra settimana non c’è più; per questo motivo se ti interessa un film di qualità, devi acchiapparlo al volo, altrimenti rischi di non vederlo più.
Il secondo motivo è di vedere e meditare su un film prima di essere bersagliato da commenti, positivi o negativi, che comunque ti condizionano nel giudizio.
Ovviamente un film interpretato dall’eclettico e camaleontico Toni Servillo non ti lascia mai deluso, specialmente poi se è ambientato in una Napoli degli anno ’70, e girato con scene cupe, quasi scure, in un’atmosfera che tanto per una volta non fa sfoggio delle bellezze napoletane, del sole, del mare, del pino e via dicendo, anzi ti si presenta tra ombre minacciose che sembrano dover improvvisamente materializzarsi ed emergere da ogni angolo, con una silhouette nera che si staglia su fondo giallo-nero, e che prosegue il suo cammino sicuro ma guardingo nei vicoli del Rione Sanità di una Napoli notturnissima, deserta, quasi desolata, piovosa, umida, ventosa, con strade allagate tra le quali bisogna fare il zig-zag in senso reale e metaforico, molto lontana dalle buffonate delle serie di Gomorra.
Ed è proprio quello zig-zag che è costretto a fare il protagonista Peppino Lo Cicero, interpretato proprio da Servillo, al quale è stato ingobbato il naso per renderne il volto più duro, un anziano killer della camorra, oramai in pensione, un sicario freddo e distaccato, che ammazzava come qualcun altro recapita la posta, un lavoro senza emozioni e senza rimpianti, che ha lasciato in eredità al figlio; non è mai stato un vero boss, il Lo Cicero padre, e non lo è, al momento, nemmeno il figlio Nino, interpretato da Lorenzo Lancellotti che segue le orme del padre, anch’egli con freddezza e senza emozioni: ammazzare è per loro un lavoro come un altro.
E ad un certo punto il papà decide di fargli un bel regalo, un revolver Colt col quale il giovane deve compiere una missione, comandata dal boss di quartiere, “Totò ‘o Macellaro” interpretato da Carlo Buccirosso, anche egli una mezza figura di camorrista, ma che, per il desiderio di emergere, commissiona al Lo Cicero figlio l’eliminazione di un giovane emergente, imparentato con un altro boss. Così Lo Cicero padre si reca dal Gobbo, armiere mezzo cieco della camorra, sotto una pioggia torrenziale. E dal Gobbo si reca Peppino Lo Cicero, coperto da un impermeabile chiaro con in testa un cappello stile Borsalino, come quello di Humphrey Bogart in Casablanca, in una serata di forte pioggia che egli imperterrito sopporta gocciolando dappertutto.
Dietro a tutti c’è la presenza di Rita, interpretata da Valeria Golino, una bella donna, vecchia amante di Peppino Lo Cicero, la quale all’occorrenza non esita ad impugnare un’arma per dare man forte ai suoi amici.
Il caso vuole che il giovane Lo Cicero, andando a compiere la sua missione, si ritrova ammazzato dall’imprevista reazione della potenziale vittima, e ciò induce il vecchio padre a riprendere le armi per vendicare la morte del suo ragazzo, scatenando, con l’aiuto del boss Buccirosso, una guerra tra bande che fa vittime a iosa, e durante la quale il killer padre, il boss Buccirosso e la compagna Valeria Golino mostrano tutta la loro perizia nel maneggiare le armi, e riescono a sterminare le varie bande rivali, una delle quali è responsabile della morte del Lo Cicero giovane.
Alla fine si scoprirà che non è andata esattamente così, nel senso che la commissione aveva tutt’altro scopo, ma non voglio anticipare il colpo di scena finale per non deludere i lettori.
Sulla interpretazione dei tre protagonisti, Servillo, Buccirosso e la Golino c’è poco da dire; tutti all’altezza della situazione, ben calati nei personaggi che interpretano, che contribuiscono col loro mestiere a rendere molto credibile la Napoli di quell’epoca, molto diversa da quella attuale: oggi la delinquenza spicciola sembra essere composta da giovani buffoneschi, violenti, esaltati e drogati che non si fanno scrupolo di compiere le loro azioni tra la gente, alla luce del sole, spesso e volentieri scambiando persona; non è che all’epoca la situazione fosse meno violenta, anche allora il sangue scorreva a fiumi, ma nella quasi totalità dei casi era il sangue delle vittime designate e non quello di poveri “Cristi” che per imperizia, superficialità, o per eccessiva assunzione di allucinogeni da parte di improvvisati sicari, oggi arrossa le vie della città.
E la freddezza dei sicari Lo Cicero lo dimostra in pieno; e, a mio giudizio, il film “5 è il numero perfetto” rimarrà una pietra miliare nella cinematografia partenopea, come lo sono stati tanti altri, come ad esempio, facendo le dovute differenze, “Le mani sulla città” di Franco Rosi, che seppe disegnare con grande perizia l’ambiente degli appalti e delle tangenti di quell’epoca, e come tanti altri che hanno disegnato tanti altri aspetti della città.
E anche il titolo ”5 è il numero perfetto” distingue quell’epoca allorquando il killer poteva contare, alla fine, solo su se stesso: due braccia, due gambe, una faccia.
Igort, Igor Tuveri, è una icona del “grafic novel (romanzo grafico)”, un maestro riconosciuto a livello internazionale, ed ha trasposto nel film, dopo dodici anni, un suo vecchio fumetto.
Il film di Igort ha suscitato in me il ricordo di un altro celebre film di sedici anni fa, interpretato da un maturo Tom Hanks, dal titolo “Era mio padre”, tant’è che per analogia ho dato al film di Servillo un mio personale titolo: “Era mio figlio”.
Infatti nel film di Servillo tutto parte dalla morte del giovane Lo Cicero, al quale il padre ha lasciato in eredità il suo mestiere, mentre nell’altro, “Era mio padre”, il maturo killer, interpretato da Hanks, evita che il figlio, pure nel tentativo di difendere il padre oramai ferito e moribondo, divenga un assassino in quanto, con un sussulto di sopravvivenza sarà proprio lui ad ammazzare il suo assassino.
Due opere agli antipodi, certamente, ma nelle quali ho visto molte analogie, salvo che nel finale che nel film di Igort si ambienta in un luminoso borgo marinaro nel quale il vecchio Lo Cicero si rifugia per vivere in santa pace gli ultimi anni della vita.
Diversamente da ciò che accade in “Era mio padre (Road to Perdition)” un bel un film del 2002, vincitore di Oscar, diretto da Sam Mendes, basato sull’opera pure a fumetti di Max Allan Collins, nel quale vi è l’ultima apparizione cinematografica dell’attore Paul Mewman, interpretato da un maturo Tom Hanks, nel ruolo del sicario della mafia Mike Sullivan, anch’egli quindi un killer.
In un summit di mafiosi internazionali, finito con un assassinio, l’adolescente Michael, figlio di Mike Sullivan, assiste per caso all’assassinio di un rivale del Boss irlandese John Rooney ad opera del figlio psicopatico Connor; ciò decreta il destino di Mike e del giovane Michael, i quali, per salvarsi, fuggono vagando per sterminati territori americani nel vano tentativo di far perdere le loro tracce; inutilmente perché lo psicopatico Connor li individua e si avvia ad ammazzare entrambi in un villino su una spiaggia isolata. Riesce a ferire il padre Mike e si accinge ad ammazzare il figlio Michael, ma il padre riesce, pure se moribondo, ad evitare che il figlio, per difendersi, ammazzi l’assassino, evitandogli, così di diventare un anch’esso un assassino e probabilmente anche un sicario.
Un finale di grande drammaticità di un bel film che, al contrario dell’altro, ha una conclusione diversamente positiva, nel senso che nel primo, quello di Igort, il sicario Lo Cicero, dopo aver perso il figlio, salverà la sua vita concludendo la sua esistenza nel borgo marinaro, mentre nell’altro, “Era mio padre”, il giovane mancato killer si salverà diventando agricoltore, rifugiandosi presso una famiglia conosciuta durante la fuga negli sterminati territori che hanno attraversato.
Film entrambi forti che lasciano il segno.