A colloquio con Abdellah Redouane, Direttore del Centro Islamico Culturale d’Italia
“La democrazia è un bene che tutti quanti noi dobbiamo difendere dal nazionalismo e dal populismo”.
“Il nostro problema è che continuiamo a ragionare in termini di Noi e Voi: ma alla base bisogna pensare che siamo tutti gli stessi, semplicemente, siamo persone. Con difetti e pregi. Tutti uguali”.
Pochi, forse, sanno che nel Cuore di Roma, tra l’Aniene e i Parioli, ci sta la Grande Moschea, sede, oltre che di culto, anche del Centro Islamico Culturale d’Italia, tra i principali punti di riferimento della comunità islamica italiana. Ho incontrato il Direttore, il Prof. Abdellah Redouane, di origine marocchina a cui ho rivolto alcune domande sulla necessità, concreta, di rilanciare e promuovere il dialogo. Ad ogni livello. Tema che, nell’attuale fase storica, sia a livello nazionale che internazionale, sembra quanto mai attuale e necessario affrontare. Per decostruire, ove possibile, pregiudizi e superficialità. Per andare nella sostanza delle cose. Per lavorare sempre a costruire ponti e legami. Per unire piuttosto che dividere.
Il Centro Islamico Culturale d’Italia è il luogo ideale in cui parlare e lavorare a tutto questo: nato negli anni ‘70 da un progetto dell’architetto romano Paolo Portoghesi, in collaborazione con un architetto iracheno, il Centro è un ente aperto alla cittadinanza e alla comunità. Infatti, oltre a promuovere e diffondere la cultura araba e islamica, attraverso ad esempio corsi di lingua araba, il Centro organizza, periodicamente, eventi di approfondimento, mostre d’arte e iniziative culturali di vario genere nell’intento di promuovere il dialogo tra fedi differenti per evolvere il concetto di tolleranza verso un modello di concreta collaborazione e solidarietà. Partendo dalla considerazione, semplice, che prima ancora che cristiani e musulmani, siamo tutti esseri umani.
Da dove si parte quando parliamo di dialogo interculturale e interreligioso?
Il dialogo anzitutto parte da un intento comune, da uno scopo preciso. Un dialogo fine a sé stesso non ci interessa perché, invece, vediamo nel dialogo uno strumento capace di permetterci non solo di convivere ma anche di collaborare e costruire, giorno per giorno, il nostro vivere insieme.
Si tratta di un problema che oggi, ad esempio con i flussi migratori che ci sono, tutti quanti, come comunità e individui, ci troviamo ad affrontare. Insieme. Il modo migliore da cui partire, penso, è basarsi su due approcci concreti: la pluriconfessionalità, ovvero ammettere che una società possa essere caratterizzata da più confessioni religiose, e la pluriculturalità, ovvero diverse culture che vivono nello stesso spazio in maniera pacifica, aperta e non conflittuale. Preferisco parlare di pluriculturalismo piuttosto che di multiculturalismo, modello che molte volte si traduce nell’esistenza di culture diverse che vivono uno stesso spazio ma senza parlarsi, senza dialogare tra loro e arrivando, purtroppo, alla costruzione di veri e propri ghetti. Il problema del multiculturalismo è che affronta il problema senza una soluzione efficace ma creando ghetti sociali, culturali e religiosi. E i ghetti talvolta diventano anche luoghi di odio.
Come costruire ponti e disinnescare il rischio dello scontro?
Il tema dello scontro è sempre presente nei dibattiti e nelle campagne elettorali. Come Direttore del Centro Islamico Culturale d’Italia, penso che siamo tutti sulla stessa barca e perciò dobbiamo remare tutti per portare questa barca al traguardo, nel porto che tutti noi vogliamo.
Tutte le società oggi sono per certi aspetti multietniche perché tutte, grossomodo, hanno influenze differenti. Per questo commettiamo un errore se continuiamo ancora a ragionare in termini di confini. Per provocazione: quali sono, oggi i confini dell’Italia?
Siccome si tratta di una penisola estesa sul Mare possiamo anzitutto dire che si tratta di un Paese naturalmente aperto al Mondo. Se vogliamo esser più attenti, possiamo poi affermare che i confini reali dell’Italia, non quelli geografici, oggi si trovano in America Latina, Asia, nell’Africa sub-sahariana. La stessa cosa possiamo dire dell’Europa: non occorre alzare muri tra Francia, Austria, Italia e Germania per risolvere i problemi. Bisogna anzitutto, però, comprendere che non possiamo più riferirci ai confini storici ed è necessario far evolvere il nostro approccio. Ad esempio, il flusso migratorio che arriva in Europa, in America del Nord e nei paesi sviluppati è solo il 30% dei flussi migratori globali. La maggior parte dei flussi interessa i paesi del sud del Mondo. Nessuno parla ad esempio del caso del Libano, paese di quattro milioni di abitanti che accoglie un milione e mezzo di profughi siriani. Oppure della Giordania, paese ugualmente piccolo, che ne accoglie un milione. Invece, quando accade uno sbarco di 200 persone da noi si genera subito un grande dibattito a volte anche polemica sul tema che l’indomani viene puntualmente dimenticato. Le cose vanno interpretate per quelle che sono non per quelle che vorremmo che fossero rispetto a qualche anno fa. Non possiamo limitarci ad analizzare le cose con le chiavi di lettura del passato perché ci sono nuove generazioni e nuove configurazioni.
Ad esempio, oggi, un predicatore può arrivare, grazie ai social network, ad avere milioni e milioni di seguaci senza mai muoversi. Una cosa inimmaginabile dieci anni fa. Anche in questo caso, quindi, assistiamo a fenomeni nuovi del tutto sconosciuti anni fa. Su cui è necessario interrogarsi. Mettendo al centro, semplicemente, il tema dell’etica. Ma fortunatamente non siamo soli. Su questi nuovi fenomeni, sulla necessità di decostruire l’odio e il conflitto siamo uniti e solidali con le altre religioni. Possiamo incidere e intervenire su questi nuovi fenomeni lavorando insieme.
Come sono i rapporti tra musulmani e cristiani a seguito della crisi siriana e di alcune prese di posizione dell’amministrazione Trump?
I rapporti tra cristiani e musulmani sono da sempre intimamente legati. Ciononostante risentono anche della geopolitica del momento. Intendo dire, ad esempio, che per secoli i cristiani dell’Iraq hanno vissuto con tutta serenità accanto alla comunità o alle comunità islamiche. Dopo il disastro iracheno e la creazione di un sistema di potere – o meglio di un agire politico – che ha frammentato l’Iraq secondo divisioni religiose o meglio tribali, siamo giunti a una situazione critica: basti pensare che con il regime di Saddam Hussein in Iraq c’erano un milione e cinquecentomila cristiani mentre oggi ne sono rimasti circa trecentomila. Tutto il resto si trova nei campi profughi. Un disastro provocato da un conflitto basato sull’ipotesi della presenza di armi di distruzione di massa che si è rivelata, poi, infondata. Siamo quindi arrivati a una situazione critica che ancora oggi si rivela complessa da gestire e riavviare. E dunque anche la relazione tra cristiani e musulmani a livello globale ha risentito duramente di questo shock.
Tuttavia, oggi, cristiani e musulmani sono fortunati. Entrambi possono contare su un personaggio carismatico come Papa Francesco capace di dare, concretamente, un giusto orientamento non solo alla convivenza e alla tolleranza bensì alla vita tout court di ciascun credente o non credente. Il Papa è oggi l’unica, vera, bussola di riferimento e orientamento capace di assumere posizioni importanti e coraggiose che talvolta irritano alcuni leader politici ma che si rivelano come un rifugio per tutti. Quando vediamo posizioni di intolleranza e di scontro allora troviamo solo il Papa che dice che quell’atteggiamento è sbagliato perché va contro i valori fondamentali non solo del buon cristiano ma dell’essere umano in sé. Si tratta di un atteggiamento di esempio che va riprodotto e rilanciato sempre. Oggi soprattutto che ci troviamo anche di fronte a un’ondata crescente di nazionalismo e populismo che sembra identificare il pericolo in due parole: immigrazione e islam. Quando c’è vuoto di contenuti e di concretezza è facile sempre scagliarsi contro l’altro, meno conosciuto e più facile bersaglio di pregiudizi. Ecco perchè credo che abbiamo un compito fondamentale: contribuire a formare i nuovi cittadini con i valori democratici perché la democrazia è un bene che tutti quanti noi dobbiamo difendere dal nazionalismo e dal populismo.
Le nuove tecnologie, internet e la comunicazione in real time, favoriscono il dialogo interculturale tra cristiani e musulmani?
Sicuramente Internet è uno strumento straordinario. Il problema è come viene usato. Non possiamo certo affermare, sempre, che internet, con tutte le sue possibilità di espressione e contatto sia sempre positivo e interessante. Il suo utilizzo rivela dettagli poco rassicuranti: si parla di fake news, di utilizzo improprio di dati personali, di limitazione delle libertà individuali. Ci sono aspetti, insomma, che dobbiamo tutelare. Aggiungo, quello che spaventa di Internet è che, attualmente, non è uno strumento che favorisce il dialogo: da a tutti la possibilità di produrre e generare informazione ma non è detto che tutti la usino per formarsi e per comprendere. In secondo luogo, Internet da a tutti la possibilità di essere protagonisti autoreferenziali senza possibilità di dialogo perché tutto si limita a un like, a un messaggio di adesione o meno. Ci sono partiti e governi che hanno inquinato questo mondo di Internet utilizzando i contenuti e i dati per operazioni di manipolazione del consenso sia politico che, purtroppo, anche religioso. Il risultato è che alla fine l’utilizzatore, il cittadino, si trova anche imbrogliato perché non ha alternative: c’è solo un tipo di informazione che circola. Il problema, oggi, è che molti pensano che avendo la facoltà di interloquire con decine di persone pensano di essere il centro del mondo quando in realtà poi non lo sono. E questo genera informazioni false, non veritiere. Una mole impressionante, un valanga di informazioni che ci vengono presentate in maniera continua senza che abbiamo il tempo, minimo, per assorbirle. Occorre quindi che anche qui entri la dimensione etica. Un’etica autogestita e auto-adottata. Intendo dire che, dobbiamo partire da noi, da uno sforzo su e per noi stessi: bisogna anzitutto puntare e investire sull’educazione. Non solo dei bambini ma anche degli adulti perchè senza educazione non andiamo da nessuna parte e sul tema abbiamo per troppo tempo lasciato la Scuola da sola quando invece essa non è pensata per gestire questa complessità. Si tratta di una dinamica educazionale che riguarda diversi fattori: la Scuola, la Famiglia, lo Stato, il Quartiere, o meglio l’entourage. La Scuola più vicina al Centro è come un Isola dentro la Quartiere, non ha contatti né legami con esso. Gli stessi studenti alla sera ritornano nei quartieri di provenienza. In questo modo, senza legami tra scuola e territorio circostante si perdono gli effetti benefici di sinergia scuola – quartiere. Da qui dobbiamo ripartire per rilanciare questi rapporti. La scuola nel suo ambiente di quartiere, il quartiere nella città e la città posizionata a livello nazionale. E su questo è fondamentale anche il ruolo dell’insegnante che non va semplicemente a scuola per tenere una lezione ma invece per formare i cittadini del domani alla cultura del rispetto dell’altro e della convivenza pacifica. Allo stesso modo, penso, bisogna recuperare il rispetto per gli anziani che devono esser valutati come ricchezza, in termini di esperienze e saggezza, piuttosto che come un peso. Non si tratta, in sintesi, di difendere valori antichi. Si tratta semplicemente di rilanciare valori che hanno funzionato e che possono funzionare anche oggi, nella società in cui viviamo.
Che cosa possiamo fare per contribuire ogni giorno al dialogo e a diffondere un’immagine positiva dell’Islam scevra da pregiudizi e strumentalizzazioni?
Non credo ci siano ricette prestabilite per questo. Dobbiamo impegnarci di trasmettere e rilanciare i valori partendo dalle piccole cose, dai piccoli gesti del quotidiano. Ce ne sono tanti che facciamo senza nemmeno rendercene conto. Perché vogliamo farli semplicemente. E questi gesti a volte creano grande impatto. Non basta e non serve focalizzarsi solo sulle cose negative, sul conflitto. La nostra vita ha bisogno di un minimo di serenità per consentire all’individuo di crescere misurandosi con le difficoltà. Per questo c’è bisogno di vivere in armonia con sè stessi e dunque con l’altro. Perchè una minima perturbazione nel rapporto con l’altro ha ripercussioni su di Noi, sul nostro modo di pensare e concepire il futuro.
Quando ero ragazzo andai in Francia a lavorare nei campi per le vendage (“vendemmia”). Un giorno lavorando mi tagliai più volte alle dita e una ragazza del mio gruppo, che studiava in Italia mi disse: “è normale ti sei tagliato perchè due ragazzi del nostro gruppo hanno litigato. Sei sensibile e avverti anche tu il loro malumore”. Da quel giorno ho capito che quando c’è tensione nell’aria anche noi non siamo perfettamente sereni. Quello che facciamo interessa e influenza quello che fanno gli altri. Nella cultura islamica c’è un precetto molto diffuso: fai al tuo prossimo quello che vorresti fosse fatto a te. Un concetto che ritroviamo anche nel Cristianesimo. Uno stesso concetto, due religioni, ma un unico valore di fondo. Bisogna diffondere tutti i gesti, piccoli e grandi che nel quotidiano si rifanno a questo.
Un piccolo gesto, ad esempio, quello che facciamo qui ogni giorno al tramonto, in occasione dell’iftar, della rottura del digiuno: offriamo un pasto a tutti quelli che ne hanno bisogno. Indipendentemente dal fatto di essere o meno musulmani. Il nostro problema è che continuiamo a ragionare in termini di Noi e Voi: ma alla base bisogna pensare che siamo tutti gli stessi, semplicemente, siamo persone. Con difetti e pregi. Tutti uguali. Abbiamo identità e tradizioni differenti ma una radice e un destino comuni. E questo è molto più importante di quello che, all’apparenza, sembra dividerci. (foto di Teresa Mezza)