Voglio il dottor Manson!
Per chi non conoscesse Andrew Manson, è il protagonista del celeberrimo romanzo di Archibald J. Cronin, intitolato 'La Cittadella' e conosciuto dai più della nostra età, grazie all'impareggiabile interpretazione televisiva del compianto Alberto Lupo
Chi di noi, più di una volta, avrà invocato tale desiderio? Di avere come proprio medico di famiglia o come specialista o come chirurgo prima di entrare nella temibile sala operatoria o, semplicemente sperando che il proprio medico o qualsiasi altro medico rispondesse diligentemente al telefono in un momento di propria disperazione, quel dottor Manson, paladino della professione medica? Per chi non conoscesse Andrew Manson, è il protagonista del celeberrimo romanzo di Archibald J. Cronin, intitolato ‘La Cittadella’ e conosciuto dai più della nostra età, grazie all’impareggiabile interpretazione televisiva del compianto Alberto Lupo (nella foto). Così come il dr. Manson combatteva contro la mala organizzazione del sistema sanitario di una piccola cittadella così noi, tutti i giorni, combattiamo contro un’endemica malasanità che esiste e che è da sciocchi negarla. Chi vuole mettere la testa sotto la sabbia faccia pure, ma la realtà non si può cancellare.
Alla luce di quello che vediamo e apprendiamo ogni giorno, c’e da pensare che il nostro sia diventato un paese di medici, stregoni, consulenti, pronosticatori: tutti sempre pronti a correre per così dire al capezzzale del malato di turno per diagnosticare il male di cui lo sciagurato soffre e far sentire la propria autorevole voce sulle condizioni del malcapitato: ora accade che il suddetto ammalato sia sempre lo stesso, vale a dire il nostro tempo presente o meglio ancora l’umanità alla quale questo tempo è toccato di vivere.
Voltandoci per un momento indietro, all’ultimo periodo oscuro che abbiamo tristemente vissuto, una prima osservazione viene spontanea: come mai tanti Soloni e Baroni di turno, così bravi a diagnosticare oggi, non avevano neppure ieri preventivato il male in arrivo? Ma più ancora: essendo essi stessi parte integrante di quella umanità che oggi avverte l’urgenza di mettersi attorno a un tavolo (secondo costoro dovremmo stare sempre tutti seduti intorno a un tavolo) per affrontare i “mali epocali” che ci affiggono, per quale ragione non sono riusciti a combinare un bel nulla? La questione non è poi irrilevante se si considera che i ciarlatani in questione sono proprio quelli che hanno retto il carrozzone della medicina ufficiale e lo hanno portato tanto per dire su una cattiva strada, secondo alcuni (altri Soloni?) addirittura senza ritorno. II pensiero in questo caso corre spontaneo al mondo politico che appare sempre più prigioniero di se stesso e dei propri interessi e incapace di provvedere anche in termini elementari a mandare avanti la “sanità pubblica”. Ma, a dire il vero, non è solo la politica, e più che altro un insieme di poteri chiusi ed in qualche misura irresponsabili, nel senso che pretendono di poter governare a tutti i livelli in funzione di una “rappresentanza” che appare sempre più formale e meno sostanziale.
Tutti i giorni in televisione o dalle pagine dei giornali ci scopriamo ammalati: a dircelo sono sempre gli stessi e nessuno – c’è da pensare – viene sfiorato dal dubbio che magari possono essere stati proprio costoro i portatori delle malattie. Ma ora pretendono di dirci anche di cosa soffriamo e talvolta di assegnarci persino la cura. Qui scattta un altro paradosso. Per curare un male occorre una medicina, questo è pacifico, come altrettanto conclamato che la medicina deve essere quella giusta. Ma il “prescrittore” per così dire dovrebbe assicurarsi almeno di tre cose: 1) che la medicina sia realmente in commercio e cioè disponibile, 2) che l’ammalato se la possa davvero permettere, 3) che abbia davvero coscienza di essere stato deontologicamente etico. Se le tre cose non funzionano, la cura non solo non è possibile, ma risuona come una beffa. Ed è proprio quello che accade: le diagnosi sono le più articolate, raffinate, persino “dotte”, ma quando si passa alla terapia pochi sanno dare la cura efficace e/o controllare l’esistenza sul mercato dei tocccasana indicati; ma cosa ancora più importante non riescono a verificare se la medicina è davvero “gradita” all’ammalato e via di questo passo. Perché appare scontato che per essere accettati e creduti occorre anche essere autorevoli, convincenti, dare testimonianza del proprio buon senso oltre che del proprio talento. E qui la nostra classe dirigente medica mostra davvero limiti invalicabili laddove tutti noi vorremmo figure di medici deontologicamente irreprensibili, pionieri della nuova scienza assistenziale in cui ogni momento della giornata viene destinata a quella che sembra più una vocazione che un mestiere. In altre parole vogliamo un dottor Manson a nostra disposizione, che studia, ama la medicina, ci conforta, e invece ci troviamo a dover avere a che fare con medici che ormai portano avanti una professione per abitudine, speziali, chirurghi che lasciano le loro esperienze nell’avidità di potere professionale rincorrendo lauti guadagni, fantomatici “luminari” di città, in cui la competizione non sta nel trovare cure risolutrici ma nell’accaparrarsi i clienti più facoltosi per arricchirsi e vivere nel più sfrenato lusso.
Tuttavia non è solo questo né possiamo lanciare la croce in un’unica direzione: anche perché occorre riconoscere che i tanti che discettano sulle pagine dei giornali o vanno in televisione (del tipo la faziosa rubrica ‘Medicina 33’ della RAI) a scoprire l’acqua calda sono in buona parte esponenti di quella società civile o forse anche di quelle “caste” che sono state o sono speculari al potere politico e alla sua inefficienza. Quando si parla di antipolitica è necessario allora tener presente un dato essenziale: non si può pretendere di curare (guarire) gli altri senza il loro consenso, non si può, giusto per fare un esempio, discettare sui mali del paese, come accade periodicamente nelle relazioni dei governi che si avvicendano, laddove il pubblico dei convenuti – chiamati ad approvare, dibattere, convenire, ecc. – è poi formato in maniera pressoché esclusiva proprio da quel “ceto” che nella scala delle responsabilità non può non situarsi che sul gradino più alto nella determinazione di quel deficit (economico, morale, culturale, ecc.) che la nazione patisce e di cui loro stessi danno oggi riscontro. Torna allora la “famigerata” questione del “che fare?”. Ma questi sono argomenti distanti anni 1uce, simili a fantasmi usciti inavvertitamente da una nuova edizione di Jurassik Park.