Verso il voto, centrodestra a 3 punte vs centrosinistra di mediani
Verso il voto, centrodestra a 3 punte vs centrosinistra di mediani
“Stanno facenno a chi songhe io e a chi si tu”.
In questo detto napoletano ci stanno tutti i veleni delle candidature promosse e bocciate all’interno del PD e gli scambi di invettive, di inettitudini e di inaffidabilità intercorsi tra Carlo Calenda (Azione) ed il resto dell’universo dei partiti in campo.
In questa fiera della maldicenza prevalgono le botte e le risposte tra Enrico Letta e Giorgia Meloni, leader dei due schieramenti più accreditati nei sondaggi: l’uno già insediato negli assetti di potere politico e mediatico e l’altro che ne contende il governo. Come dire che l’uno gioca in difesa per fermare l’avanzata delle destre e l’altro in attacco verso riforme costituzionali per nuovi equilibri istituzionali.
Sullo schema della metafora calcistica si capisce la diversità di strategie di discesa in campagna elettorale del centrodestra con tre punte: Meloni-Berlusconi-Salvini; e di un centrosinistra di mediani: Bonelli (Verdi), Bonino/Della Vedova (+Europa), Frantoianni (SI), Speranza (art.1) e Di Maio/Tabacci, condotti da Letta in un campo non tanto largo quanto sperato, senza coperture sui laterali dopo la rottura con Giuseppe Conte (M5S) e la defezione di Calenda.
Dovendosi difendere dai fendenti di questi in tandem con Matteo Renzi e difronte all’imprevedibilità dei comportamenti del corpo elettorale, al momento sondati in favore del centrodestra, l’opzione del coach dem per una comunicazione impostata sul voto utile sembra puntare non tanto per un improbabile pareggio da fantacalcio quanto sulle incognite di possibili disfacimenti delle coalizioni appena testate dal corpo elettorale con l’intento di riproporre condizioni di emergenze istituzionali.
Se ne coglie il senso con la campagna di delegittimazione da lui ispirata e dai media compiacenti orchestrata con tinte fosche contro Giorgia Meloni, ma con sfumature di colori nei confronti di Matteo Salvini ed in grigio verso Silvio Berlusconi.
L’accanimento sulle credenziali politiche e attitudinali della leader di FdI manifestato oltre gli standard della leale dialettica elettorale, perciò, non prelude ad un “sereno” avvio della prossima legislatura.
Le viene contestata, al di là di risibili contaminazioni fascistoidi, la proposta di elezione popolare diretta ed a suffragio universale del Capo dello Stato, ritenuta dalla pubblicistica dem fonte di avventure autoritarie incompatibili con il regime parlamentare. Ma, per dovere di cronaca non va dimenticato che la proposta ha precedenti di confronto accademico e parlamentare sin dalla Costituente, è una riproduzione delle linee di convergenza cui è pervenuta nel 1997 la Commissione Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema ed è una forma istituzionale vigente in oltre dieci Paesi europei.
Tutte le proposte sono discutibili ed emendabili e ciascuna forza politica confortata dal consenso popolare è abilitata a portarle in Parlamento: stopparne la capacità di iniziativa è un fallo in area di rigore.
Salvo verdetto contrario di qualche moviola extra politica per ostacolare l’investitura per Palazzo Chigi del o della leader del forza legittimata dal voto popolare.
Si tratta di qualcosa di già vista negli snodi della cosiddetta seconda Repubblica, sin dal suo nascere sulle macerie giudiziarie della prima, ed a seguire nei tormentati passaggi di cessione della guida politica del Paese a commissari esterni: da Mario Monti a Mario Draghi.
Comunque lo si voglia chiamare è un sintomo di un male oscuro in cui si dibatte il nostro sistema di democrazia parlamentare da oltre un ventennio.