Ormai sono passati trent’anni dal 1986, l’anno in cui si celebrò a Palermo il processo che tutti conoscono come “Maxiprocesso” per le sue enormi dimensioni: 475 imputati, poi ridotti a 460, circa 200 avvocati difensori, presenti oltre seicento giornalisti venuti da tutto il mondo.
Quel Maxiprocesso” si può ben considerare il più grande processo penale mai celebrato nel mondo intero, e fu voluto da un pool di Magistrati, il cosiddetto “Pool antimafia” che costituì la punta di diamante della forza speciale che riuscì, dopo anni di intenso lavoro, a portare alla sbarra i più noti appartenenti a Cosa Nostra.
All’inizio degli anni ottanta a Palermo imperversava una guerra di mafia tra i Corleonesi e la fazione guidata da Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti (della quale faceva anche parte Tommaso Buscetta che era scappato in Brasile): dal 1981 al 1983 a Palermo vennero ammazzate circa 600 persone.
Anche lo Stato subì gravi perdite: Cosa Nostra ammazzò il Generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa (inviato a Palermo proprio per combattere Cosa Nostra), il Segretario della DC Michele Reina, il Commissario di Polizia Boris Giuliano, il giornalista Mario Francese, il Magistrato Cesare Terranova, il Presidente della Regione Piersanti Mattarella, fratello dell’attuale Capo dello Stato, il Magistrato Gaetano Costa e il Segretario del PC Pio La Torre, per citare solo i più noti.
La nascita del “pool antimafia” fu la risposta dello Stato a questa situazione: ideatore il Magistrato Rocco Chinnici il quale, assassinato nel 1983, venne sostituito da Antonino Caponnetto che scelse Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello con l’aiuto di Giuseppe Ayala.
Già durante la fase istruttoria e di rinvio a giudizio fu chiaro che nel Tribunale di Palermo nessuna aula avrebbe potuto ospitare tanta gente e per questo venne costruita in pochi mesi, accanto al Carcere dell’Ucciardone, una maxi-aula, denominata “aula bunker” la quale, oltre ad essere superprotetta, è anche supertecnologica in quanto dotata dei più moderni sistemi computerizzati di archiviazione di atti e documenti: chiara evidenza che lo Stato, quando le cose le vuole fare, sa farle in maniera egregia e in tempi rapidi.
Ci furono ripetuti tentativi di avvocati e imputati di ritardare lo svolgimento del processo: imputati che diedero in escandescenze, che finsero di sentirsi male in aula, che compirono azioni autolesionistiche; avvocati difensori che richiesero ricusazioni e alla fine, la lettura integrale di tutti gli atti del processo, facoltà prevista all’epoca dal codice: l’accoglimento di tale istanza avrebbe comportato un ritardo di oltre due anni; il Parlamento, con rara tempestività, varò una legge grazie alla quale quel pericolo fu scongiurato.
Finalmente l’11 novembre 1987, dopo 349 udienze, 1314 interrogatori e 635 arringhe difensive, gli otto membri della Corte d’assise si ritirarono in camera di consiglio: la Corte era composta dai due giudici togati Alfonso Giordano e Pietro Grasso, e dai sei giudici popolari Francesca Agnello, Maria Nunzia Catanese, Luigi Mancuso, Lidia Mangione, Renato Mazzeo e Francesca Vitale.
Quella fu la più lunga camera di consiglio che la storia giudiziaria ricordi: 35 giorni, durante i quali la Corte visse totalmente isolata dal mondo.
Il 16 dicembre 1987 il presidente Giordano lesse il dispositivo della sentenza che concludeva il maxiprocesso di primo grado: 346 condannati e 114 assolti; 19 ergastoli e pene detentive per un totale di 2665 anni di reclusione.
Quella sentenza venne unanimemente considerata un duro colpo a Cosa Nostra e ricevette commenti favorevoli da tutto il mondo: e non ci furono proteste nemmeno da parte di chi non era contento di una così dura lotta alla mafia (e non erano pochi, come episodi successivi dimostrarono).
E stranamente, nonostante la pesantezza delle condanne, negli ambienti di Cosa Nostra non si mostrò grande pessimismo, nella convinzione che nei successivi gradi di giudizio le condanne sarebbero state di molto ridimensionate.
Il processo di appello, che si celebrò a partire dal 22 febbraio 1989, fu funestato da un altro delitto, quello del Magistrato Antonino Saetta, che si era messo in luce durante i vari processi precedenti, e che, per il suo riconosciuto rigore, ed era stato designato quale presidente del collegio di appello: Cosa Nostra lo assassinò il 25 settembre 1988.
L’incarico di presidente venne accettato dal giudice Vincenzo Palmegiano e il processo d’appello poté iniziare, il 22 febbraio del 1989, e si concluse in maniera abbastanza rapida, tant’è che il 12 novembre 1990 la corte poté ritirarsi in camera di consiglio per decidere e la sentenza fu emessa il 10 dicembre successivo e fu abbastanza deludente, e diede adito a molte polemiche, in quanto le pene erano state ridotte: gli ergastoli da 19 a 12, le pene detentive di un terzo, gli anni di reclusione da 2665 a 1576 e vi furono altri 86 assolti.
Uno dei motivi presi a base della più mite sentenza fu la teoria che Cosa Nostra non era una organizzazione malavitosa rigidamente verticistica, talché molti delitti erano stati commessi senza che i vertici ne avessero conoscenza: teoria successivamente smentita da ulteriori sentenze e dai fatti, giacché in quella organizzazione malavitosa, a differenza della camorra napoletana, “non si muove foglia che l’organizzazione non voglia” e non esistono cani sciolti che fanno quello che vogliono.
Ma la Corte di Cassazione fece giustizia di quella teoria; gli imputati avevano molta fiducia che il terzo grado di giudizio avesse “cassato” le precedenti sentenze, giacché c’era la convinzione che a presiedere il processo sarebbe stato il Giudice Corrado Carnevale al quale ritualmente venivano affidati i processi contro Cosa Nostra, e che aveva la fama di “ammazzasentenze”; ma la Corte assegnò la presidenza a Arnaldo Valente.
La sentenza definitiva fu emessa il 30 gennaio 1992 e fu molto severa: tutte le condanne vennero confermate, la maggior parte delle assoluzioni in appello venne annullata; la Corte, in sintonia con i giudici del primo processo, si convinse che Cosa Nostra era una organizzazione “verticale”.
Vi fu, pertanto, un nuovo processo, celebrato tra il 1993 e il 1995, davanti alla Corte presieduta dal Magistrato Rosario Gino: tutte le condanne inflitte in primo grado vennero confermate, e questo fu un colpo durissimo per Cosa Nostra.
Il “pool antimafia” l’aveva avuta vinta, anche grazie alla composizione dello stesso e principalmente al Giudice Giovanni Falcone il quale, da siciliano, aveva saputo capire e parlare di mafia, facendosi accettare da quei “pentiti”, tra i quali Tommaso Buscetta, dei quali aveva conquistato la fiducia, parlando il linguaggio degli stessi ed entrando in sintonia con le loro mentalità.
Quel “Maxiprocesso” può ben considerarsi una pietra miliare non solo per la lotta alla criminalità organizzata, ma anche perché fece scuola per la organizzazione di altri processi di grandi dimensioni.