Tutto scorre e nulla permane, diceva il filosofo osservando il fiume.
Il racconto del mondo a cui assistiamo è una plastica rappresentazione di questa affermazione.
Il concetto di memoria è ben più corto e stretto rispetto a quello dei tempi passati. Ma non è un dato positivo o negativo è semplicemente la considerazione di un modello di pensiero e riflessione che, ad oggi, è incentrato sulla presenza e sul momento e non sulla comprensione del passato.
Ciò che viene celebrato oggi, in effetti, dopo poco viene quasi o del tutto dimenticato e posto in un misterioso limbo dove albergano le cose, anche banali, di cui abbiamo perduto memoria.
La memoria, o meglio il ricordo salta fuori sempre con un riferimento al presente per decantarlo o per spiegarlo e mai come concetto da valorizzare in sé.
Con questo, di conseguenza si è perso il senso della Storia. Ma non collettiva fatta di grandi eventi guerre e condottieri ma la semplice consapevolezza che siamo frutto, inevitabile, di chi c’era prima.
Senza questa considerazione, quello che accade sembra fine a sé stesso come se non fosse figlio di nessuno e come se fosse frutto di questa o quella volontà del momento. E ci perdiamo un pezzo, non affatto irrilevante, di realtà da comprendere.
Gian Battista Vico parla di corsi e ricorsi storici ovvero di cicli e tendenze che nel corso della storia si ripetono quasi ciclicamente e in una forma in un certo qual modo prevedibile.
Sebbene non sia possibile, in alcun modo prevedere, gli avvenimenti in base a leggi precostituite, è però indubbio che la storia è maestra di vita. Dagli avvenimenti, soprattutto da quelli negativi si può apprendere e capire come orientare il proprio futuro.
A patto però di riuscire laddove pochi, pochissimi, riescono: ammettere di aver sbagliato e riconoscere di aver preso una solenne cantonata.
L’attuale contesto delle relazioni globali rappresenta un banco di prova.
Le crisi internazionali di cui siamo testimoni – dal Sud America, all’Asia, al Medio Oriente – appaiono come frutto di crisi precedenti. Come se fossero accatastate l’una sull’altra come legna che prende fuoco alla prima scintilla.
L’Afghanistan è una chiara immagine degli effetti di una storia segnata dall’instabilità politica e dal confronto violento tra gruppi di potere.
Nato ufficialmente come nazionale nel XVIII secolo, il Paese ha una storia antica come il mondo contraddistinta dalla sua naturale funzione di terra di transito e incrocio (non sempre pacifico) tra popoli, civiltà e imperi.
Con riferimento all’epoca recente, dal 1933 al 1973, sotto la guida del Re Mohammed Zahir Scià, l’Afghanistan conosce il periodo di maggiore stabilità e prosperità.
Nel 1979, l’Unione Sovietica invade il paese, prende Kabul ma successivamente è costretta a ritirarsi grazie alla guerriglia mossa dai “mujaheddin” gruppi di guerriglieri tra i quali ci sono i temibili talebani.
La forza dei guerriglieri viene incrementata grazie agli aiuti inviati dal blocco occidentale avverso all’espansione dell’URSS.
Dopo il ritiro dell’URSS, le frange estremiste dei mujaheddin prendono sempre più potere fino a minacciare seriamente le forze governative. I talebani prendono effettivamente il potere alla fine degli anni ’90 e proclamarono l’Emirato Islamico dell’Afghanistan applicando una versione estrema della legge islamica.
Nel 2001, a seguito della complicità diretta del regime di Kabul nell’attentato alle Torri Gemelle, gli Stati Uniti, a capo di una coalizione di forze internazionale, decidono di invadere il Paese per sradicare il regime talebano.
Dopo pochi mesi di guerra il regime lasciando Kabul. Gli eserciti restano sul campo per assicurare la transizione verso un regime di stabilità ma la guerriglia mossa dai talebani non si ferma.
Alla luce di questo breve excursus: quale senso hanno le parole pace, democrazia, diritti umani in un contesto che non ha mai conosciuto, nell’epoca recente, più di quaranta anni di pace?
Quello che sembra evidente dagli avvenimenti dell’Afghanistan è che la realtà internazionale appare sempre di più come un insieme interconnesso di cause ed effetti e non come eventi staccati.
Guardiamo agli effetti dell’ennesima crisi e ci sorprendiamo, allibiti e scandalizzati, abituati all’imperante dominio del Presente che cancella il senso della storia e ci priva della possibilità di avvicinarci a una lettura reale degli avvenimenti.
Tra le cause, ad esempio, l’estremismo religioso è una delle più rilevanti ma non è l’unica. A livello razionale assume poco senso pensare che la conquista del potere da parte dei talebani sia stata determinata, unicamente, dall’idea di instaurare e consolidare un “Emirato Islamico”. Sarebbe una considerazione non coerente con la storia del contesto visto che l’Afghanistan una rilevanza geopolitica unica essendo paese al centro di “tre mondi”, Asia, Medio Oriente ed Europa.
Quindi, non considerare la storia, ovvero non considerare che gli avvenimenti sono frutto di eventi precedenti, sembra esser una delle cause della crisi che ci troviamo ad affrontare.
Tuttavia, dopo aver riconosciuto tali errori, non serve arroccarsi sul pensiero della “fine dell’Occidente”. Considerando la gravità degli effetti di tale crisi e instabilità, occorre interrogarsi, rapidamente, su come fronteggiare le conseguenze alle quali tutti, prima o poi, siamo sottoposti.
A partire dall’emergenza umanitaria rappresentata dai profughi afghani che, tra qualche giorno, cominceranno a premere ai confini dell’Europa.
Non c’è tempo da perdere.
Non è la fine dell’Occidente ma è la fine di un modo di pensare e concepire la realtà – improntato unicamente al Presente – che si è rivelato fallace e non efficace.