Per scaramanzia il Premier Giuseppe Conte avrebbe fatto meglio ed evitare l’espressione “Stati Generali” per ascoltare le “parti sociali” alle quali intende illustrare il Recovery Plan.
Ne spiegava le ragioni Alessandro Penati su “la Repubblica” di sabato 6 giugno ricordando che l’ultima convocazione dei cosiddetti “Stati Generali” di cui si ha memoria nei testi di storia risale al 1789: data dalla quale prese il via la rivoluzione francese con la tragica decapitazione di Luigi XVI.
Nulla è paragonabile fra le fibrillazioni illuministiche e le attuali inquietudini che agitano i palazzi della politica nostrana e montano il malessere delle piazze. Anche se non sono tutti negativi i ricorsi storici, nello specifico, una preventiva “toccata di ferro” non guasterebbe per scongiurare l’eventualità di una pandemia economica dopo quella sanitaria.
L’apparizione della dicitura “Stati Generali” compare con la loro convocazione tenutasi nella chiesa di Notre-Dame a Parigi il 10 aprile del 1302 per l’ascolto da parte di Filippo il Bello dei “cahiers de dolèances” (quaderni di lamentele) dei rappresentanti dei tre ordini sociali: clero, nobiltà e terzo stato ossia borghesia.
Dal 1484 furono periodicamente convocati per l’elaborazione e la ripartizione delle imposte; nel 1576 su iniziativa dei Duchi di Borgogna furono riuniti per deliberare la costituzione di un esercito federale delle province cattoliche e riformate e con il fallimento del relativo trattato nel 1579 divennero organo federale con il l’Unione di Utrecht.
Gli Stati Generali rimasero attivi fino al 1795, quando vennero sostituiti dall’Assemblea generale costituente, l’anno dopo che la ghigliottina si calò sul collo di Maximilien Robespierre che era stato alla guida del Comitato di salute pubblica.
Con questi precedenti non può dirsi felice la scelta di un titolo che, per quanto miri a suscitare suggestioni di “rinascita”, non è privo di evocazioni che giustificano l’antico detto: “In omnia pericula tasta testicula”.