Ci sono frasi, dette o scritte una volta da illustri personaggi che poi, decontestualizzate ed assolutizzate, diventano luoghi comuni, si piantano nella testa delle persone e producono visioni distorte della realtà. Ad esempio quella buttata giù un secolo e mezzo fa da Karl Marx nel “18 brumaio di Luigi Napoleone Bonaparte”: “La storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa”. Era solo una boutade del filosofo tedesco per polemizzare con Luigi Napoleone Bonaparte, restauratore quaranta anni dopo Waterloo del sogno imperiale di suo zio, Napoleone Primo. Col tempo quella frase è diventata un luogo comune con il quale, di fronte alle ricorrenti minacce della storia, si scacciano via le paure.
Ancora più perentoria la sentenza di Vilfredo Pareto: “La storia non si ripete”, punto! Affermazione tanto apodittica, quanto insensata. Lo sanno bene gli Ebrei, vittime nella loro plurimillenaria storia di ripetute, drammatiche deportazioni e tentativi di sterminio.
Tucidide, uno che di storia se ne intendeva sul serio, ammoniva invece: “La storia si ripete”. Chiediamoci quindi in quali condizioni o situazioni la storia può ripetersi. Il filosofo ispano-americano George Santayana, vissuto a cavallo tra seconda metà dell’Ottocento e prima metà del Novecento, individua nell’oblio del passato la condizione del ripetersi delle tragedie storiche: “Chi non conosce la storia è condannato a ripeterla”.
Si parlerà di questo domattina a Cava de’ Tirreni, al Cinema Alambra, per iniziativa dell’Istituto Comprensivo Giovanni XXIII, che, nel Giorno della Memoria, ha organizzato la proiezione del film di Christian Duguay “Un sacchetto di biglie”, tratto dall’omonimo romanzo autobiografico di Joseph Joffo. Libro e film sono ambientati nella Francia di Vichy e raccontano della persecuzione degli Ebrei in quegli anni terribili.
Le immagini non indugiano sulle solite rappresentazioni dei campi di concentramento tanto frequenti nei film sulla Shoah; vi alludono piuttosto. Si vedono i treni della deportazione e dai dialoghi si viene a sapere della deportazione del padre di Joseph e Maurice, i due ragazzi protagonisti della pellicola. Il cuore della sceneggiatura, sul filo della fuga dei due ragazzi da Parigi a Nizza, a Marsiglia, fino all’Alta Savoia, è invece la narrazione della condizione degli Ebrei nella Francia tra fine ’43 e agosto ‘44. Ne ragioneremo meglio domani al Cinema Alambra di Cava, qui ci soffermiamo su un solo aspetto, il più rilevante: il consenso della popolazione francese alla caccia all’Ebreo.
Il razzismo contro i giudei non fu un atto di prevaricazione imprevisto, imposto da una minoranza feroce ed armata ad una popolazione nel suo insieme restia ad accettarlo. Fu piuttosto un sentimento popolare di massa. In Germania come in Francia; senza dimenticare l’Italia, o la Russia, o la Polonia…
Nella Francia l’antisemitismo aveva radici profonde ed antiche. Tant’è che finanche Voltaire, il filosofo dei lumi, della libertà e della tolleranza, ne era stato un propugnatore a fine Settecento. A metà dell’Ottocento ebbe poi fortuna Joseph Arthur de Gobineau, col suo “Trattato sull’ineguaglianza delle razze umane”, che ne sistematizzò i concetti. Ed a fine secolo “La France Juive” di Édouard Drumont godette di un clamoroso successo di vendite. Ciò mentre l’opinione pubblica d’Oltralpe spingeva per la condanna a morte del capitano Dreyfus, ebreo accusato sulla base di prove fasulle di alto tradimento. Prove costruite a tavolino, allo scopo di offrire quale capro espiatorio la vita del giovane ufficiale ad una popolazione assetata di sangue ebreo.
Benito Mussolini si compiaceva nel dire che lui non aveva creato il fascismo, lo aveva tratto fuori dall’inconscio del popolo italiano. Aveva ragione. Così Hitler non inventò il razzismo, lo trovò bell’e pronto nel popolo tedesco. Ed il maresciallo Pétain in quello francese. È questa la prima cosa da non dimenticare.