- Nei mesi scorsi, dalle pagine di questo giornale, in più di un’occasione abbiamo invitato alla moderazione e alla riflessione rispetto agli avvenimenti che infiammavano la polemica politica nel nostro Paese. Insomma, non abbiamo esitato a rifuggire l’uso di termini tanto seri quanto abusati, come fascismo e xenofobia, per etichettare e spiegare, spesso in modo semplicistico ed approssimativo, situazioni e fenomeni quasi sempre complessi e complicati.
A maggior ragione abbiamo sollecitato i nostri lettori a sforzarsi di comprendere, a tentare cioè di leggere con più serenità e profondità di pensiero, quello che politicamente si stava affermando nel Paese.
In altre parole, ci permettevamo di suggerire di non far passare l’idea che la stragrande maggioranza degli italiani, i quali nel dna una certa predisposizione a rivelarsi voltagabbana di sicuro ce l’hanno, sia tutto d’un tratto diventata fascista e razzista.
Diciamo questo alla luce di due notizie pubblicate nell’ultimo fine settimana.
La prima, riguarda il caso della nave Diciotti, che aveva portato all’ipotesi di reato di sequestro di persona compiuto dal ministro degli interni Matteo Salvini. I giudici del Tribunale dei ministri di Palermo hanno ritenuto che i migranti, come si legge da una nota di Rai News, “non furono oggetto di alcun reato, men che meno il sequestro di persona, perché nei primi giorni si stava cercando una soluzione diplomatica per l’accoglienza, che poi non fu trovata. Per il periodo successivo, dal 20 al 25 agosto, i magistrati palermitani rimettono qualsiasi riferimento a possibili reati, che non individuano, passando la possibilità di valutazione ai colleghi catanesi. In ogni caso sottolineano che la Guardia Costiera, cercando una soluzione per lo sbarco a Malta, fece l’interesse del Paese al rispetto delle convenzioni da parte dei partner europei”.
In breve, anche se l’iter giudiziario ancora non si è concluso, i giudici hanno messo alcuni punti fermi. Certo, questo non inficia le diverse e contrastanti valutazioni politiche ed umanitarie, così come i dubbi e le perplessità, che ciascuno di noi può legittimamente avere sull’operato del ministro Salvini, ma il buon senso consiglia a tutti di abbassare i toni e di non apparecchiare certe scene madre cui abbiamo assistito in piena estate, le quali lasciano il tempo che trovano e servono solo a coprirci di ridicolo e a farci ridere dietro.
La seconda, invece, è una lunga riflessione politica a tutto campo di Massimo D’Alema, pubblicata sabato scorso dall’Huffington Post. D’Alema di sicuro non è un campione di simpatia, anzi, tuttavia è giusto riconoscergli una intelligenza politica che nella sinistra italiana ha pochissimi eguali. Quella di D’Alema è una critica, ma più ancora un’autocritica assai severa e ragionata sulla crisi della sinistra italiana.
D’Alema non ha peli sulla lingua quando, parlando della crisi della sinistra, afferma che essa “si colloca in un quadro internazionale che conferma il carattere profondo e non congiunturale delle tendenze che investono il nostro Paese. A maggior ragione questo richiederebbe una riflessione coraggiosa e di grande respiro e non l’incalzare dei tweet quotidiani”. E che, in questo quadro, non si può “eludere una discussione sulle scelte di questi anni anche perché ci si è mossi nella direzione esattamente contraria alla necessità di ricostruire il rapporto tra la sinistra e la sua base popolare”. Il riferimento al Pd ,e a Renzi in particolare, è più che evidente e scontato.
Poi, l’affondo e, tutto sommato, l’autocritica di D’Alema: “La grande maggioranza dei lavoratori, privati e pubblici, e una buona parte degli insegnanti hanno percepito come ostile la politica del centrosinistra. A questa ostilità si è aggiunto un crescente rancore verso quella parte politica da cui si pensava di dover essere protetti e non colpiti”. C’è poco da aggiungere, è da un po’ e in più di un’occasione che abbiamo fatto nostre queste considerazioni.
C’è poi una lunga analisi economica e sociale che dà lo spessore culturale di D’Alema. Questo, uno dei passaggi più significativi: “La crisi finanziaria e poi economica non è stata solo l’effetto del fallimento della pretesa autoregolazione dei mercati, ma il punto di arrivo di un processo sociale segnato dalla crescita delle diseguaglianze, dall’impoverimento delle classi medie, dalla precarizzazione e svalorizzazione del lavoro, mentre la ricchezza finanziaria si concentrava in gruppi sempre più ristretti. L’enorme disparità di ricchezza e opportunità finisce per logorare non solo la coesione sociale ma la base stessa della democrazia”.
D’Alema affronta, quindi, un tema scottante come quello dell’Europa: “Le istituzioni di Bruxelles sono apparse sempre più, persino al di là del vero, esclusivamente come garanti di regole finanziarie e monetarie e non come promotrici di politiche di sviluppo e solidarietà”. Lapidario, anche se forse con parecchio ritardo rispetto a Salvini e soci.
E ancora, con estrema lucidità: “Una sinistra europea che voglia credibilmente rilanciare la sua funzione e ritrovare le sue ragioni non può che mettere al centro della battaglia dei prossimi mesi una visione radicalmente innovativa dell’UE, la necessità di una vera e propria rifondazione dell’Europa e di un rinnovato patto fra istituzioni comuni e cittadini. L’idea di fare quadrato con l’establishment europeo in difesa dello status quo contro la “barbarie sovranista” sarebbe suicida”. Insomma, non è mai troppo tardi scegliere da che parte stare, semplificando, se, con tutto il rispetto, dalla parte di Junker, Moscovici, Dombrovskis e via discorrendo, o con i cittadini italiani, le cui istanze non possono essere sempre liquidate con sufficienza o, peggio, in modo dispregiativo, come l’espressione della pancia del Paese.
In conclusione, le acute riflessioni di D’Alema, quantunque tardive e che non lo sollevano affatto dalle sue responsabilità per nulla trascurabili sul fallimento politico della sinistra post-comunista, meritano comunque di essere lette nella loro interezza https://www.huffingtonpost.it/2018/10/20/la-critica-autocritica-di-dalema_a_23566643/, non fosse altro perché suggeriscono più di una considerazione.
Tra queste, di sicuro la necessità per la sinistra italiana di cambiare registro perché una democrazia funziona se c’è un’opposizione forte, credibile ed incisiva e nel nostro Paese oggi non c’è. E questo vale soprattutto per il Pd, ormai, a torto o a ragione, percepito sempre più come un partito conservatore oltre che confuso, che dà sempre più l’idea, come afferma D’Alema, di far quadrato con l’establishment europeo, ma anche italiano, in difesa dello status quo.
In ultimo, l’analisi di D’Alema fa apparire come largamente superato dagli eventi internazionali e dagli umori dell’elettorato italiano un leader come Matteo Renzi, tanto giovane anagraficamente quanto obsoleto politicamente. E questo, almeno noi, lo diciamo con vero disappunto, in ragione della formidabile energia e vivacità dell’ex premier.
Il problema, però, per la sinistra e il Pd in particolare, è che Renzi non ha affatto intenzione di vestire i panni del novello Cincinnato. E con la sua ingombrante presenza ed esuberante personalità, la sinistra e il Pd dovranno continuare a fare i conti.