Riforma costituzionale tra premierato e vaghezze partitocratiche
Il ricorso ai cosiddetti Governi tecnici, sebbene emergenziale, corrisponde sempre ad una sospensione della volontà uscita dalle urne e ne favorisce altre di diversa natura, dubbia sul piano della deontologia della democrazia
L’idea di Repubblica non sempre corrisponde ad un concetto di democrazia o di governo espressione della volontà popolare. Sin dall’antichità è stata declinata in forme diverse, prevalentemente, oligarchiche o autocratiche. In seguito alla Rivoluzione francese del 1789 le relative moderne Costituzioni sono state articolare sull’ispirazione dei principi di libertà, uguaglianza e fratellanza.
Così, la nostra Carta, non concessa ma generata da referendum istituzionale, sancisce che “la sovranità appartiene al popolo” e ne articola l’esercizio attraverso un ordinamento di tipo parlamentare: ha funzionato fino al logoramento di una partitocrazia incapace di onorare i mandati elettorali e di garantire stabilità di Governo.
E non si tratta di una affermazione ideologica ma di una constatazione statistica, avendo l’Italia, nel contesto europeo, dal 1948 sperimentato il più alto numero di formule e compagine governative (68 Governi e 32 Premier) accumulate da Germania, Francia e Spagna, messi insieme, la cui durata media è stata di 361 giorni rispetto ai 494 di Francia (1958/2023), 944 di Spagna e 1108 di Germania.
Dati rilevati da una analisi del politologo Marco Improta (Univ/Siena) per un pregresso dataroom, del 2023, di Milena Gabanelli. Ora, a parte la tipicità culturale e caratteriale del variegato ceto politico italico, c’è qualcosa che non funziona nelle architetture disegnate 76 anni fa e né la sperimentazione, nell’ultimo trentennio, di più e diversi sistemi elettorali ne ha ravvivato la nobile genesi. Come dire, con le parole di Edmondo De Amicis, “non sempre il tempo la beltà cancella. O la sfioran le lacrime e gli affanni”, e per quanto la nostra Costituzione sia reputata “la più bella del mondo” nella parte dei principi e dei diritti, più di un affanno ne ha reso rughe nell’ordinamento istituzionale dello Stato fino a determinare forme di commissariamento della politica e dei suoi attori.
Il ricorso ai cosiddetti Governi tecnici, sebbene emergenziale, corrisponde sempre ad una sospensione della volontà uscita dalle urne e ne favorisce altre di diversa natura, dubbia sul piano della deontologia della democrazia.
Negli anni della prima Repubblica le devianze venivano regolate o riassorbite attraverso figure interne al Parlamento con Governi fantasiosamente presentati all’opinione pubblica come “balneari”, “elettorali” o della “non sfiducia”; nell’ultimo ventennio, esaurita la vena del prestigio parlamentare, ci si è affidati a figure esterne credibili, nell’interesse del Paese, nelle cancellerie estere. Radiografia di una crisi di sistema sulla quale c’è una vasta letteratura, cimento di più e diverse correnti di pensiero, si a destra che a sinistra. L’iniziativa messa in cantiere dal Governo in carica è un disegno di legge di riforma costituzionale emendabile dal Parlamento dove è già in discussione.
Il suo contenuto può essere criticabile sul piano dialettico nei rapporti con le forze politiche alle quali il Premierato sottrarrebbe spazi di manovre nei corridoi dei Palazzi, ma rientra nella cultura di una democrazia liberale in cui il dissenso è sale del confronto, ma per governare conta il responso delle consultazioni elettorali. L’altro punto controverso riguarda i poteri del Presidente della Repubblica al quale verrebbe sottratta la facoltà di “nomina del Presidente del Consiglio dei Ministri” (Art. 92 Cost.). Sul punto la cronaca della vita dell’ultima legislatura ci restituisce una prassi non tanto dell’esercizio di un potere ma di atti di ratifica di accordi predeterminati sul piano dell’autosufficienza numerica in Parlamento piuttosto che sulla qualità programmatica e coerenza politica, al di là della figura, in coda, di Mario Draghi.
Certamente l’investitura diretta del Premier, da parte del corpo elettorale, restringe spazi di interventi del Presidente della Repubblica pro tempore, ma ne limita anche l’invasività, che pur c’è stata in diverse stagioni, rispetto alle dinamiche delle forze politiche in campo, contravvenendo al ruolo di garante super partes. Sostenere che questa riforma costituisce uno sgarbo istituzionale nei confronti di Sergio Mattarella ed uno strumento di potere di Giorgia Meloni per rafforzare la sua personale vicenda politica non può che definirsi un’idiozia tra i vagheggiamenti partitocratici propalati in malafede. Perché, essa vale per le legislature a venire e qualora non venisse approvata da “ciascuna delle Camere a maggioranza dei due terzi dei suoi membri” si va a referendum (Art. 138 Cost.).
E finché si vota c’è democrazia e c’è speranza.