Regioni, 76 anni in cerca di identità decisive
E' prevalso il modello del regionalismo “sturziano” rispetto al centralismo della sinistra contraria alla riduzione dell’Italia “in pillole”: colorita metafora di Pietro Nenni
“L’innovazione più profonda introdotta dalla Costituzione è nell’ordinamento strutturale dello Stato su basi di autonomia e può avere portata decisiva per la storia del Paese”.
Sono le parole di Meuccio Ruini rese con soddisfazione per il voto unanime espresso dalla “Commissione dei 75”, incaricata di redigere il testo costituzionale, relative alla istituzione della Regione, che “non sorge federalisticamente”. Si è pervenuto a tale voto di “compromesso” a seguito di un vivace e dotto confronto fra culture politiche di formazione cattolica, liberale, socialista e comunista. E’ prevalso il modello del regionalismo “sturziano” rispetto al centralismo della sinistra contraria alla riduzione dell’Italia “in pillole”: colorita metafora di Pietro Nenni.
Il dibattito su come e quando attuare il dettato costituzionale è proseguito per 22 anni, tra le forze politiche e nel mondo accademico, ma con scarsa attenzione e partecipazione dell’opinione pubblica. Dubbi e ripensamenti hanno condizionato azione e consapevolezza politica di leader provenienti dal più convinto regionalismo, come Alcide De Gasperi ed Ugo La Malfa, preoccupati della presenza di un forte PCI la cui posizione non era ancora compatibile con la democrazia occidentale.
Il ritardo si è chiuso con un’altro “compromesso” così svelato da Francesco Cossiga a pag.109 in “La versione di k”: “non si poteva tenere la sinistra parlamentare, un movimento così potente, fuori dalle sfere del potere”. Come da lui esplicitato, “l’idea di sbloccare l’istituzione” era motivata dall’opportunità di un “equilibrio politico” al fine di “dare un pò di potere ai comunisti là dove erano più forti” e non “per una migliore organizzazione dello Stato”.
E ne attribuisce a Mariano Rumor, Presidente del Consiglio dei Ministri dal 5/8/69 al 7/2/70, la promozione del “commino verso l’alleanza tra DC e PCI”.
Nei successivi confronti parlamentari sull’importanza di dare vita alle Regioni, contrari liberali, missini e monarchici, ne hanno esaltato il valore democristiani, repubblicani, socialdemocratici e comunisti, perché bisognava decentrare per avvicinare lo Stato ai cittadini, ridurre la burocrazia, risparmiando sulla finanza pubblica e responsabilizzando l’amministrazione rispetto ai bisogni dei cittadini e dei territori.
Caricata di un forte significato politico e di aspettative di sviluppo democratico e riscatto sociale, la data delle consultazioni del 7/6/1970 per la prima elezione dei Consigli regionali veniva ritenuta “la più impegnativa dopo quella decisiva del 1948” (Arnaldo Forlani, Segretario Nazionale della DC) e per Francesco De Martino, leader socialista, all’epoca, vicepresidente del Consiglio dei Ministri, le Regioni avrebbero dovuto costituire anche “un potente mezzo per imprimere l’impulso allo sviluppo economico e sociale del Mezzogiorno”.
Al traguardo dei primi vent’anni esse sono arrivate esangue, lontane dalla società civile e con risultati non esaltanti nella valutazione dei media e di esponenti dello stesso mondo politico. Se ne rendeva interprete lo stesso Ministro per le Regioni, Antonio Maccanico, ritenendo “l’ordinamento regionale poco radicato nella vita della Repubblica” ed auspicando “un ripensamento critico” rispetto al primo ventennio delle autonomie che – a suo dire in una intervista rilasciata a ‘Il Messaggero’ del 23/2/90 – ha favorito “la continuità del vecchio centralismo”.
E ne attribuiva la responsabilità non solo agli apparati dello Stato, ma anche al sistema elettorale allora in vigore.
La successiva introduzione dell’elezione diretta dei Presidenti di Regione ha segnato una svolta epocale conferendo stabilità ed autorevolezza ai cosiddetti “Governatori”, nei confronti degli apparati dello Stato, ma soprattutto nelle relazioni con le Segreterie nazionali dei partiti incombenti nelle scelte locali di indirizzo politico e di personale militante.
La seconda svolta è stata la riforma del titolo V della Costituzione operata nel 2001 con la riscrittura di una potestà legislativa, rafforzata, in favore delle Regioni promossa da un compagine governativa di centrosinistra in competizione con un fenomeno, elettoralmente redditizio, di federalismo “casereccio” agitato dalla Lega nella cosiddetta Padania.
È stato capovolto il contenuto redatto dai costituenti del 1948 che assegnava alle Regioni ordinarie materie di interesse locale ed interventi speciali per il Mezzogiorno, la cui voce scompare nel testo riformato. In esso sono solo tre le materie in cui la potestà legislativa è riservata esclusivamente dello Stato ed è concorrente per venti per le quali ciascuna Regione può richiedere le relative attribuzioni. Fra queste vi sono sanità, istruzione ed infrastrutture, la cui gestione fa la differenza su un territorio già storicamente differenziato in termini di sviluppo economico e di potenzialità fiscale.
Questa nuova configurazione del regionalismo è rimasta sulla carta per ventitré anni e paradossalmente ne ha avviato le procure di attuazione una compagine di forze politiche di centrodestra, che non l’hanno votata, e viene contrastata dalle formazioni di centrosinistra (in primis il PD) che l’avevano concepita.
Si tratta di una nuova grammatica politica sulla distribuzione dei poteri sul territorio nazionale che rimette in discussione un tema già affrontato con la nascita della Repubblica sull’ordinamento dello Stato e le autonomie.
Il che vuol dire che la Regione, inserita in Costituzione, è ancora in cerca di una identità decisiva: una materia di distribuzione ed assetto di potere o un’incompiuta? Nè il Referendum e né i ricorsi alla Consulta ne daranno una risposta.