Sul Rosatellum pende il dubbio dell’incostituzionalità e se contestato non ci sono più i tempi per rimuoverlo. Il che non implica la sospensione delle consultazioni di primavera, ma la formazione di un Parlamento privo del carisma della legalità costituzionale.
E non è una novità nell’andazzo delle vicende politiche italiane. Ne sono un esempio Camera e Senato in scadenza di mandato eletti con una legge corretta dalla Consulta dopo il loro insediamento. Si tratta di un vizio duro a morire nei comportamenti delle leadership politiche nostrane, preoccupate a spuntare convenienze immediate per i rispettivi partiti piuttosto che scrivere regole generali durature, buone per tutti e sganciate dagli interessi del momento.
Non a caso il Consiglio d’Europa nel 2003 ha emanato una direttiva ripresa anche in una sentenza della Corte di Strasburgo in cui si indica l’opportunità di non fare leggi elettorali nell’imminenza delle consultazioni, almeno un anno prima. In Italia non hanno sortito alcun ravvedimento sia le correzioni già operate dalla Consulta sul Porcellum e sull’Italicum sia le sollecitazioni di due Presidenti della Repubblica, Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella, a legiferare per tempo su un testo applicabile in maniera omogenea per la Camera e per il Senato.
A fronte della insipienza già manifestata, in questa come in precedenti legislature, ed in presenza di evidenti traccheggi per rimandare tutto all’ultimo minuto senza possibilità di correzioni preventive, sarebbe stato utile un ultimatum del Presidente della Repubblica in carica. Ne fa cenno Gustavo Zagrebelsky in una intervista apparsa sul Fatto Quotidiano on line sabato 7 Ottobre: “avrebbe potuto dire per tempo di non promulgare nessuna legge elettorale nell’ultimo anno dallo scioglimento delle Camere”.
Al di là delle pasticciate combinazioni delle candidature multiple in collegi uninominali e nei listini del proporzionale, il nervo scoperto che più fa discutere dell’impianto arrivato nell’aula di Montecitorio è la negazione dell’esercizio del voto di preferenza, come se il cittadino elettore fosse una pedina, come nel gioco della Dama, piuttosto che il titolare di un potere di scelta di simboli e di uomini, garantito dalla Costituzione.