Parabola M5S: rabbia, passione, delusione
Il M5S si darà una “nuova carta dei valori”. Lo ha preannunziato Luigi Di Maio in visita nella sua città natale di Pomigliano d’Arco.
Nella notizia data si intravedono sia i corti circuiti interni al Movimento che spunti di riflessione sulla natura dei partiti che ricorrono alla definizione delle loro idee dopo avere riscosso larghi consensi ed all’aggiornamento dei loro valori a seguito di sconfitte elettorali.
Di certo la parabola pentastellata non ha precedenti nella cronaca politica dell’Italia repubblicana. In un decennio, dai “Vaffa” di Beppe Grillo contro tutte le rappresentanze istituzionali della politica ha raggiunto la vetta di forza di Governo e da questa esperienza sta ridiscendendo i gradini della scala dei consensi.
Per rintracciare un altro esempio di repentina nascita, crescita e decadenza c’è il ricordo dello “Uomo qualunque” nella memoria degli ultra 75. Anch’esso movimento di protesta contro politiche governative é stato fondato, al pari del M5S, da un comico, Guglielmo Giannini. Si manifestò soprattutto nel Sud nel biennio luogotenenziale 44/46 del secolo scorso e fu riassorbito nel 48 dalla stabilizzazione dei partiti fondati sulla cultura della rappresentazione politica degli interessi sociali e dei bisogni economici di un Paese da ricostruire dalle devastazioni belliche e di una comunità nazionale da ricomporre rispetto alle conflittualità ideologiche.
Un esempio più recente di partito nato e vincente nello spazio di pochi giorni é stato “Forza Italia”. Anch’esso fondato da un personaggio estraneo al mondo della politica militante, Silvio Berlusconi, ha avuto una genesi di contestazione verso una partitocrazia in crisi di identità e flagellata da inchieste giudiziarie. Con l’esaurimento della forza di attrazione dei partiti del sistema bipolare (centrodestra contro centrosinistra) sono maturati nell’elettorato sentimenti di diserzione dalle urne o di cambiamento la cui ricerca ha premiato il nascente M5S e la Lega, già consolidata in contesti locali.
Il primo ha riscosso preferenze come novità al di fuori dei circuiti di potere e dei recinti ideologici; la seconda é stata percepita come argine alle invadenze non solo migratorie, ma anche culturali rispetto a prospettive di travisamento delle identità nazionali. Entrambe le forze politiche hanno sperimentato una comune fase di Governo del Paese favorita da affinità generazionali del loro personale dirigente piuttosto che da compatibilità di scelte programmatiche e pratiche del fare politica.
Si è trattato di un modo nuovo di governare che ha consentito la rottura di steccati e, per la prima volta, di inaugurare la stagione dei “contratti” su singole voci, al di là di comuni analisi sulle priorità dei fabbisogni del Paese e senza una visione condivisa del suo futuro di sviluppo.
Il che spiega anche il disinvolto passaggio pentastellato di allearsi con il PD, con la benedizione di Grillo, e che, da un lato, ha fatto dire a Di Maio “siamo l’ago della bilancia per la formazione dei Governi” e, dall’altro, ha irritato le orecchie del popolo grillino abituato ad ascoltare e recepire altre parole. Ora se ne capisce la delusione dopo aver verificato il rendimento dei suoi eletti a Palazzo Chigi.
Sul punto sembra appropriato un vecchio adagio napoletano: “chi prima nun pensa, aròppa suspira”. Vale in generale, senza distinzione di colori, per gli eletti e per gli elettori, per chi promette e chi gli accorda fiducia. Come dire che senza idee fondate sulla realtà delle cose non si fa politica né si costruisce su basi solide.
A futura memoria di quel che resta della fiducia accordata al Movimento (sceso dal 32 al 17%) ed in omaggio della genuinità dei primi “Vaffa” vale la pena ricordare che “ ‘a petra ca ruciuleja nun ajsa muro”. E non serve recriminare contro quelli di prima, specie se ex alleati, per giustificare le proprie incapacità.
Non si tratta di cambiare pelle, ma di manifestarsi con lealtà (ecco il vero valore) per ricambiare la fiducia accordata dagli elettori, o per rabbia o per passione.