Non chiamiamola festa della donna, non c’è nulla da festeggiare.
Non c’è mai stato nulla che in questo giorno faccia pensare ad una festa, dalla sua istituzione, in ricordo delle operaie vittime di un incendio nel 1908 a New York, ad oggi.
L’8 Marzo si celebra la “Giornata Internazionale della donna”: un evento per riflettere e dibattere su quanto la politica, le istituzioni tutte, possono e devono ancora fare per abbattere tabù, pregiudizi e retaggi culturali, ancora oggi duri a morire. Guardandosi intorno ci si accorge che si vive in una società che zoppica, fintamente emancipata, libera solo a parole da certi cliché.
L’8 Marzo è un giorno di lotta per puntare i riflettori sulle disparità, le disuguaglianze, le violenze che le donne sono costrette a subire. Il così detto gender gap, ovvero il divario tra i generi, è inaccettabile.
È inaccettabile che una donna, in quanto donna, viva in una condizione di svantaggio rispetto all’uomo. Tutti dobbiamo impegnarci affinché si possa raggiungere la parità di genere in tutti i campi, da quello professionale, a quello sociale, passando per quello culturale.
Ci si deve impegnare, inoltre, anche per combattere la narrazione che si fa delle donne: nel non considerarle solo madri, dolci, sensibili, deboli e custodi del benessere familiare. Sono 24 ore per ricordare le sofferenze, le discriminazioni, ma anche le tante battaglie messe in campo, nel corso dei decenni, per conquistare l’autonomia, l’indipendenza economica, l’emancipazione, la parità di diritti e doveri.
24 ore per sottolineare non tanto quanto è stato fatto finora, ma quanto rimane ancora da fare. Non chiamatela festa, dunque, perché solo quando la parità e il rispetto che si deve alle donne sarà riconosciuto si potrà festeggiare. Solo quando gli stipendi saranno uguali, ci sarà parità di assunzione, quando le donne non saranno più licenziate per gravidanza, quando il corpo della donna sarà studiato come quello dell’uomo (parlando e ampliando la ricerca su problemi come endometriosi, vulvodinia e fibromialgia), quando le donne non saranno più oggetto di sessualizzazione, quando tutte e tutti saremo uguali. Quando non ci saranno più femminicidi, che dall’inizio del 2023 sono già 9, l’ultimo avvenuto proprio il giorno prima della “Giornata internazionale della donna”, il 7 marzo, dove ha perso la vita Iulia Astafieya.
È per questi motivi che l’8 marzo è un giorno di cortei e manifestazioni in tutt’Italia. Sono scese in piazza donne e uomini di tutte l’età riempiendo le città di Bologna, Torino, Milano, Roma, Napoli, Salerno e tante altre, di cori, proteste e performance per gridare al mondo i problemi e le ingiustizie di cui sono vittime le donne.
Non solo le donne però, le proteste femministe oggi sono transfemministe, lottano cioè per tutta la comunità LGBTQI+ e per i diritti di tutt*. Inoltre, le lotte, sono intersezionali, lottando anche per le sorelle di tutte le razze, etnie e culture. Particolarmente sentita la vicinanza alle donne iraniane in questo momento storico.
Sono piazze dove la diversità è azzerata e ognun* può sentirsi liber* come vuol, prestando attenzione anche a tutte le persone non normodotate. Ad esempio, nei vari interventi di “Non Una di Meno- Bologna”, tenuti nell’arco della giornata, era presente un’interprete della lingua dei segni, per permettere, appunto, a tutt* la completa partecipazione.
Un ringraziamento sentito alle varie associazioni di “Non Una di Meno”, a tutti i Collettivi transfemministi presenti in Italia, alle “Mujeres Libres” e “La Mala Educación” di Bologna. Sarebbe bello se l’8 marzo possa diventare un giorno di festa.
Un giorno, magari, questo sarà possibile ma solo se tutt* faranno la propria parte.