Sono certo che, con questa mia riflessione, mi attirerò non poche critiche, però voglio correre il rischio per dire la mia sulle funzioni religiose susseguitesi nei giorni della Settimana Santa, da Giovedì a Sabato di questo triste anno, caratterizzato dal forzato isolamento e autosegregazione in casa, che ha costretto il mondo intero a modificare le abitudini di una vita; ma purché il problema si risolva, ben vengano anche questi sacrifici.
Ed è proprio per questo che tutte le cerimonie religiose sono state seguite, attraverso i canali televisivi, in tutto il mondo, e certamente la mancanza di distrazioni vacanziere e folcloristiche ha consentito una più intima partecipazione e, di conseguenza, una più attenta e meditata comprensione.
La Santa Via Crucis trasmessa nella prima serata del Venerdì Santo su Rai1 da Piazza San Pietro, bene illuminata ma che trasmetteva un grande senso di tristezza a vederla completamente deserta, presieduta da Papa Francesco, è stata intensamente seguita da me insieme a milioni di persone e, se da un lato mi sono sentito gratificato di essere spiritualmente in contatto con tutta l’umanità cristiana, e non solo, dall’altro mi ha dato un senso di disagio per lo specifico e particolare significato che Papa Francesco ha voluto dare alla celebrazione, dedicata interamente ai carcerati.
Per la verità Papa Francesco, pontefice innovatore, il quale con il suo comportamento, il suo esempio, il suo insegnamento, oltre che con le innovazioni già faticosamente introdotte, ha conquistato il cuore pure di coloro che si professano atei, e uno degli esempi è Eugenio Scalfari, non tralascia occasione per mostrare la propria vicinanza agli ultimi, che siano gli immigranti, le popolazioni vittime di guerre, carestie, o di altre violenze.
Negli ultimi tempi ha mostrato particolare attenzione e vicinanza ai carcerati, certamente povera gente che, pure se abituata a vivere in segregazione forzata per la espiazione delle pene per i delitti commessi, vivono in maniera maggiormente drammatica questo periodo per essere stati, giustamente, privati dei periodici colloqui con i propri familiari.
Non c’è, però, da nascondere che gran parte dei colloqui è finalizzata all’approvvigionamento degli stupefacenti che i familiari non mancano di far tenere ai congiunti detenuti, sottraendosi ai controlli che dovrebbero impedirlo: ma in questo paese tutto è consentito, anche ciò che è proibito, il “sistema” chiude spesso gli occhi, e così si tira avanti.
E’ sintomatico, infatti, aver appreso che una parte dei detenuti che hanno partecipato alle rivolte nei carceri di qualche settimana fa, è morta per over-dose di stupefacenti, in quanto, in crisi di astinenza, la prima cosa che i rivoltosi hanno fatto è stata di saccheggiare le farmacie degli istituti di pena, e ingurgitare dosi massicce di stupefacenti che li hanno condotti alla morte.
Ma, indipendentemente da questo aspetto particolare, non a tutti ha fatto piacere che l’intera Via Crucis fosse dedicata alla meditazione sulle privazioni dei carcerati, con la quale, e mi auguro di essermi sbagliato, ho avuto la sensazione che quasi si giustificasse la loro rabbia e la loro ira contro le istituzioni che li tengono segregati, quasi che fosse una ingiustizia.
Perché ingiustizia non è, in quanto dare questa interpretazione della loro segregazione fa dimenticare che tutto ha origine da un loro delitto che nella maggioranza dei casi ha fatto vittime, le quali sembrano dimenticate.
Non ho sentito una sola parola sulle vittime, come sarebbe stato giusto che fosse anche durante il sacro rito, ho avuto piuttosto la impressione che esse fossero state, mi auguro involontariamente, dimenticate.
E questo silenzio mi è parso come una specie di “santificazione” dei carnefici, una interpretazione eccessiva della esortazione “nessuno tocchi Caino” che, certamente condivisibile, non deve mai far dimenticare che c’è pure un Abele caduto sotto i colpi del “povero” Caino.
E questo non è piaciuto.