Più che la pratica delle intercettazioni in uso nelle indagini giudiziarie sono i tempi e le modalità di pubblicazione dei contenuti attraverso i media a far discutere sul diritto all’informazione e la tutela della privacy, entrambi espressamente garantiti dalla Costituzione.
Il disegno di legge della mini riforma approntata dal Ministro della Giustizia Carlo Nordio ne regolamenta la divulgazione: “si” a quelli riportati sulle ordinanze di custodia cautelare e sui decreti di sequestro e “no” a stralci, fuori contesto processuale, di informative riportate sui brogliacci.
Lo stesso Ministro più volte nel dibattito pubblico ha fatto richiamo all’art.15 della Costituzione secondo il quale ogni forma di comunicazione è inviolabile e “la limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dall’autorità giudiziaria con garanzie stabilite dalla legge”. Dunque non “bavaglio” sulla fonte di notizie certificate con atti compiuti dalla magistratura inquirente.
Altra cosa è la libertà di stampa, “non soggetta ad autorizzazioni e censure” (art. 21 Cost.), che si può esercitare attingendo da altre fonti attraverso canali fiduciari o di favore, purché i relativi contenuti corrispondano “alla verità sostanziale dei fatti”, secondo quanto disposto dalla normativa sulla stampa, e rispettino dignità e reputazione delle persone, così come suggerisce l’ispirazione deontologica del Codice di comportamento degli iscritti all’Ordine dei Giornalisti. Ma spesso la si raggira quando nelle intercettazioni captate e finite nelle redazioni dei cronisti vengono menzionati nomi di rilevanza politica o sociale ricorrendo all’invocazione dell’interesse pubblico nel rendere informazione di fatti contestati anche se non compiutamente verificati.
Anche in questi casi non può non valere il principio dell’inviolabilità della sfera privata contenuto nel citato art.15 della Costituzione ed anche familiare come sancito dall’art. 8 dalla Convenzione Europea dei Diritti Umani (CEPU).
Al di là della deontologia o dell’etica professionale, che se non si hanno, come il coraggio di Don Abbondio, non le si possono acquistare, c’è una vasta casistica di cronache ricche di devastazioni umane oltre che politiche di figure incappate nella gogna mediatica montata su indagini costruite sulla sabbia ed inconsistenti alla prova del processo.
Non è agevole in un contesto di civiltà giuridica e di leale convivenza democratica delle garanzie costituzionali imbattersi tra l’opzione per l’interesse pubblico o per lo sputtanamento dell’altrui reputazione.
O tempora o mores!
La citazione non vuole essere una scusante di convenienza corporativa, ma rispecchia un clima politico, sterile di idee, in cui l’utilizzo delle intercettazioni ha assunto dimensioni moralistiche di lotta e supremazie tra caste, spesso assecondate da gruppi editoriali di riferimento ideologico, ed è qui che la libertà di stampa paga più dazio. Mettere mano al riordino delle procedure non vuol dire “museruola” o “deriva autoritaria”.
E se si opera in sintonia con l’ordinamento costituzionale, nel rispetto di ruoli e funzioni, può essere un modo per uscire dal caos e di ripristinare quella sobrietà di linguaggio per anni venuta meno e più volte richiamata dal Capo dello Stato, Sergio Mattarella.
A partire dagli usuali proclami degli stessi promotori di azioni giudiziarie contro “stragi di legalità” rinvenute “al di là di ogni ragionevole dubbio” e riportate acriticamente dagli operatori dei media per procedimenti poi naufragati sull’inconsistenza dei fatti.
Ecco, rimettere i propri debiti non è un atto di semplice contrizione spirituale ma un modo laico per affermare e ribadire la sovranità dello Stato di diritto e quella certezza di equilibrio iconograficamente rappresentata dalla bilancia sospesa dalla Giustizia turrita. E così sia.