Legge Minniti sull’immigrazione, finalmente qualcosa si muove anche a sinistra
Checché ne dica anche Famiglia Cristiana, sono del parere che finalmente anche la compagine governativa sta prendendo atto che il problema dell’immigrazione, indiscutibilmente serio, va affrontato con un taglio diverso da come è stato fatto fino a oggi, giacché non è più possibile, né politicamente, né economicamente, soggiacere passivamente all’invasione di masse enormi di uomini di ogni razza, ideologia e religione e delle quali il nostro paese è la prima vittima.
E’ ovvio che il problema, per la sua rilevanza e complessità, non può essere risolto solo dall’Italia, ma è anche ovvio che non è più possibile che il nostro paese debba sottostare passivamente, senza adottare qualche provvedimento che, sebbene non costituisca un insormontabile argine, quanto meno eviti che lungaggini burocratiche e procedurali aggravino le situazione consentendo, di conseguenza, intasamenti di campi e strutture di accoglienza solo perché si intende essere eccessivamente, direi estremamente, “garantisti” anche nei confronti degli immigrati, riconoscendo agli stessi uguali diritti e prerogative dei cittadini italiani.
Anche perché, mi si consenta questa chiosa, il nostro paese non brilla per efficienza e organizzazione (leggasi campi e organizzazioni di accoglienza), nè per razionalità delle leggi e regolamenti, e non solo perché soggetti a compromessi politici, ma anche per innegabile incapacità della burocrazia a renderli chiari e applicabili.
Prima di tutto, chi ha stabilito (?) che agli immigrati debbano essere riconosciuti gli stessi diritti dei cittadini italiani, ha fatto un assurdo giuridico e pratico al quale nessuno si è decisamente, finora, opposto; con la conseguenza che la rabbia e la protesta di milioni di cittadini italiani, che si sentono defraudati dei loro diritti perché ugualmente (forse anche in misura maggiore) riconosciuti agli “stranieri”, sta alimentando quelle forze politiche populiste (grillini, leghisti e parte degli altri partiti di destra) che stanno cavalcando questa tigre e fondano su ciò la maggior parte dei loro consensi.
Ora il ministro Marco Minniti sembra aver adottato un giusto provvedimento che incomincia a fissare dei paletti, primo fra tutto quello della non eguaglianza agli italiani degli immigrati, specialmente quelli ai quali andrebbe riconosciuto lo “status” di rifugiato politico o di protezione umanitaria: finora è stato un calvario in quanto, riconoscendo anche agli immigrati tutte le tutele legislative in vigore anche per la decisione dell’accoglimento di tali richieste, si allungava la decisione prevedendo tre gradi di giudizio; e giacché è notoria la lentezza della nostra “giustizia”, lasciare che si seguisse tutto l’iter fino al terzo grado, significava tenere in sospeso per mesi, se non per anni, la decisione; ben venga, quindi, la stretta prevista dalla nuova legge, che nega agli immigrati i tre gradi di giudizio.
Premesso che una seria politica dell’immigrazione non può essere fatta solo dal nostro paese, ma deve farsene seriamente carico l’Unione Europea, e che il nostro paese ha già fatto e fa troppo, e, al di là di qualche beneficio economico europeo che non compensa tutti i disagi che noi quotidianamente affrontiamo, di più non può fare, andiamo ora ad esaminare, senza la presunzione di fare un esaustivo approfondimento dell’intera legge, qualche dettaglio della stessa, approvata con 240 voti favorevoli, 176 contrari e 12 astensioni.
L’art. 3. della nostra Costituzione prevede che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Ma non è automatica la equiparazione di un immigrato al cittadino italiano.
Vengono così a cadere, quindi, le garanzie previste dall’art. 111, il quale parla di giusto processo e di garanzie di equa difesa; ma nel caso specifico ritengo che finora ci sia stata una forzatura dell’interpretazione di questo articolo, che riguarda il processo, non l’accoglimento della richiesta di un immigrato di vedersi riconosciuto lo status di rifugiato politico.
Né, a mio avviso, ci si può appellare, come finora è stato, all’art. 24 della nostra Costituzione, secondo il quale tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi e la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento: ma anche qui si parla di processo, e di garanzie per i cittadini italiani, stato che, nel caso di un immigrato, non è automaticamente riconosciuto per il solo fatto di aver messo piede sul nostro suolo.
E pure l’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, che parafrasa in parte l’art. 111 della nostra Carta costituzionale, viene a cadere in quanto riguardante il giusto processo; nel nostro caso non v’è processo, ma solo una decisione di accogliere o meno la richiesta di un cittadino straniero di vedersi riconosciuto un determinato “status”.
D’altronde non è totalmente negato all’immigrato il diritto di esporre le proprie ragioni in quanto la nuova legge prevede che comunque il giudice può decidere di convocare il richiedente per sentirlo; è ovvio che l’audizione non è obbligatoria, ma giacché anche ai cittadini italiani viene negato, in una infinità di casi, il diritti ad essere sentiti, non si comprende perché, per i casi di cui si tratta, il cittadino straniero debba vedersi riconosciuto un diritto tante volte negato ai cittadini italiani.
Ci sarebbe da affrontare anche altri aspetti del fenomeno dell’immigrazione, quali, ad esempio, l’adeguamento alle nostre tradizioni, cultura, religione, modo di vivere, da parte degli immigrati, i quali spesso si arrogano il diritto di opporsi e ostacolare il nostro modo di vivere, spingendosi persino a convincere nostri “compaesani” a proibire finanche l’esposizione dei nostri simboli (la croce, il presepe, ecc.); è un sopruso al quale noi italiani non possiamo sottostare: non ci siamo mai permessi di mettere in discussione le tradizioni dei popoli che ci hanno ospitato quando eravamo noi i migranti in cerca di una vita migliore; perché accettare che gli immigrati che accogliamo lo facciano, talvolta lo pretendano?