La globalizzazione dell’umana sofferenza
Quando ho incontrato Zygmunt Bauman a Bari nel 2013 -dopo un’imponente lectio magistralis– per chiedergli di scrivere la prefazione alla mia socio-antropologia sui neri d’America (Mimesis Edizioni, Milano 2014), gli ho posto alcune domande sulla spettacolarizzazione della sofferenza dell’uomo, com’è oggi favorita dai media e da internet: problema morale in cui tutti ci troviamo coinvolti come spettatori: tema, peraltro, del suo ultimo libro, Il secolo degli spettatori – Il dilemma globale della sofferenza umana. Tra l’altro, nel mondo percorso dalle autostrade dell’informazione siamo tutti spettatori, anche del dolore e della sofferenza di altri.
L’opera di Bauman, scomparso lo scorso gennaio, è concentrata sulle società postmoderne e sulle conseguenze della globalizzazione. Egli scrive del mondo liquido, postmoderno, contrapposto alle società precedenti solide, costruite su ideologie. Le certezze del mondo occidentale si sono disciolte con il tramonto delle ideologie, la caduta del Muro di Berlino, l’implosione dell’Unione Sovietica, la fine della Guerra Fredda. Un nuovo scenario geopolitico è emerso, con nuove Potenze economiche e militari, Cina e India, e si è determinato un nuovo assetto labile e mutevole mentre la produzione di merci, beni e servizi si dislocava e tutto, uomini compresi, prendeva a vorticare per tutto il pianeta creando una sensazione di dissoluzione di un mondo, di insicurezza totale.
Il sociologo e pensatore polacco ha coniato il termine di ‘modernità liquida’ e discetta di ‘paura liquida’ -titoli di due suoi saggi- per definire questa volatilità di persone cose e informazioni, messaggi, immagini che i media e internet diffondono. Bauman chiarisce che il problema del male, di chi infligge sofferenza a qualcuno, comporta la colpa; ma anche chi assiste e non interviene è, in fondo, colpevole. In questa società dell’informazione non ci si discolpa dicendo non sapevo. Siamo tutti spettatori del dolore e della sofferenza di altri. Si pongono dei dilemmi etici che il grande pensatore affronta con riferimento a Jaspers che ha sostenuto che la colpa morale, cioè di chi ne soffre e arriva a pentirsi, è diversa dalla colpa metafisica. Quest’ultima esiste indipendentemente dal contributo che l’individuo ha dato o meno alla sofferenza dell’Altro.
Nella globalizzazione e interconnessione planetaria e qualsiasi nostra azione può riflettersi all’altro capo del pianeta; la responsabilità umana per l’Altro è incondizionata e deve comprendere la previsione e la precauzione.
Attualmente il cinque per cento della popolazione mondiale accede, consuma e spreca la metà delle risorse del globo. Siamo responsabili dell’umanità, del futuro, sempre più bombardati da immagini di sofferenza che si dissolvono in un battito di ciglia. Nel suo libro Bauman cita Kapuscinski sulla differenza tra vedere e sapere. Ciò che si vede suscita pena, tutti si danno da fare per raccoglier fondi. Praticamente siamo noi col modo di vivere con le multinazionali, la Banca Mondiale, a creare le condizioni per la sofferenza dei più deboli. I sensi di colpa dell’Occidente sono messi a tacere dai telethon in diretta televisiva, tuttavia tra sapere e agire vi è una profonda dicotomia. Ciò che si sa e ciò che i media ci fanno sapere necessita di un codice etico e legale.
Il più grande pensatore del mondo auspica, nel suo testamento editoriale, un impegno collettivo che agisca energicamente per sconfiggere la miseria creata dalla globalizzazione: solo in questa modalità l’internauta diventa attore impegnandosi per dare un valido contributo agli enormi dilemmi sollevati dal “secolo degli spettatori” che ebbe inizio agli inizi del Novecento e tuttora persiste.