scritto da Mariano Avagliano - 02 Dicembre 2017 09:28

E’ la democrazia, bellezza mia

foto Angelo Tortorella

“Che cos’è la destra? Che cos’è la sinistra?” cantava Giorgio qualche anno fa.

Stessa spiaggia e stessa musica pure oggi, anzi, qualche nota peggio. Nel senso che almeno qualche anno fa qualche bandiera ci stava oggi manco quella. Ma, attenzione, senza nostalgia. Lemme lemme ci chiediamo che senso abbia oggi fare riferimento a “destra” e “sinistra”, alle basi su cui queste due belle direzioni poggiano (o sembrano poggiare…).

Tralasciamo la destra: per ora categoria di pensiero politico che, nel bene o nel male, aldilà di comiche e psicotiche nostalgie, sembra aver trovato una sua sintesi nell’affermazione del liberalismo, nella traduzione insomma di tutto ciò che esiste nel mercato grazie alla “mano invisibile” nella politica e nei valori della democrazia. Libertà anzitutto insomma più che eguaglianza. Arriviamo al punto, giriamo a “Sinistra”: ci interessa, non perché esser di sinistra è radical chic ma perché ci interessa capire la crisi di un pensiero politico che nel nostro Paese negli ultimi venti anni è arrivato a vincere le elezioni senza mai esprimere, chiaramente, un governo banalmente stabile o addirittura senza arrivarci proprio.

Insomma, una barzelletta da film di Nanni, vincere senza vincere questo è il dilemma. E forse, ci sto pensando da un po’, la crisi di cultura politica, anzi il “vuoto” politico a cui assistiamo nel Paese, è anche dovuto alla crisi della sinistra, dei suoi elementi culturali, delle sue ispirazioni.  Ma non è solo un tema del nostro Stivale, ma si tratta, a ben vedere, di una bella storiella che riguarda, alla radice, il pensare, il fare, il dire cose “di sinistra”, in tutta Europa o, se vogliamo guardando pure ai Democrats, nel mondo. Per stringere ci possono essere due chiavi di lettura: cultura e leadership. O meglio, semplicemente, si tratta della mancanza del fermento culturale necessario e fondamentale per far germogliare, anche, nuovi leader. Dopo la caduta del comunismo (“tutti uguali sempre e comunque”), ebbeh, la matrice del pensiero di sinistra ha provato, in qualche annetto e non senza scissioni degne del papato del medioevo, a re-inventarsi nella ricerca di un equilibrio (e na parola) tra il “tutti uguali” e il “tutti liberi”. Che cosa scegliamo tra uguaglianza e libertà? Bella domanda.

Qualcuno però a trovare la quadra ci ha provato aprendo una “terza via”: ne sa qualcosa Tony Blair. Il suo labour ha, nel bene e male comunque con successo cambiato e innovato il Regno Unito. Ma pure la terza via, oggi, si traduce quasi in un vicolo cieco: in una cronica e definitiva incapacità del pensiero di sinistra, del progressismo, di combinarsi con la globalizzazione riuscendo, per lo più, a parlare di “globalizzazione sana” (come se la globalizzazione, fenomeno umano, possa esser “buona” e “cattiva”).  Un esempio? La contraddittorietà del pensiero di sinistra di dare una lettura, unica ed efficace, sull’immigrazione: siamo tutti d’accordo sul valore, sacrosanto, dell’accoglienza di chi è meno fortunato o svantaggiato per differenti motivi, ma poi che facciamo? come creiamo valore? Come allarghiamo la torta per far in modo che chi viene accolto non venga percepito solo come un peso?

Non voglio parlare di “questione morale” né tantomeno di perdita di contatto con le “basi sociali”. Semplicemente voglio riflettere, e invitare voi a farlo con me, sul significato delle categorie politiche e di pensiero a cui a volte, sciuè sciuè e senza pensier, facciamo riferimento.

Probabilmente, il Centro Destra (in questo caso diamo per scontato che le definizioni reggano…), è dato per vincente alle prossime elezioni. Questo non solo per la rinnovata capacità di attrarre elettori ma anche per la debolezza dello schieramento avversario.

In assenza di dialettica su temi chiave, aldilà che sul colore delle cravatte o dei tombini di Roma e Torino, il partito che ne uscirà vincitore si comporterà come un vero e proprio “catch all party”, una macchina acchiappavoti suscettibile di allargare le proprie basi culturali (sempre che ce ne siano) per prendere quanti più elettori possibili.

Non possiamo farci nulla, adesso. L’unica cosa, concreta e utile che possiamo e, secondo me, amma fa è che dobbiamo esserne consapevoli. Dobbiamo esser consapevoli che quando parliamo di categorie politiche lo facciamo con riferimento a direzioni, che, nella realtà del paese, oggi hanno poca o nulla attinenza concreta. In fondo è anche e sempre merito nostro e della nostra bella indifferenza. Dobbiamo esserne consapevoli per non svegliarci poi la mattina dopo i fantasiosi exit poll delle due di notte e liquidare tutto con un, infantile, “io non l’ho votato”. Eh no non lo hai votato ma mo te lo tieni lo stesso, è la democrazia, bellezza mia.

Ha iniziato a scrivere poesie da adolescente, come per gioco con cui leggere, attraverso lenti differenti, il mondo che scorre. Ha studiato Scienze Politiche all’Università LUISS di Roma e dopo diverse esperienze professionali in Italie e all’estero (Stati Uniti, Marocco, Armenia), vive a Roma e lavora per ItaliaCamp, realtà impegnata nella promozione delle migliori esperienze di innovazione esistenti nel Paese, di cui è tra i fondatori. Appassionato di filosofia, autore di articoli e post, ha pubblicato le raccolte di poesie “Brivido Pensoso” (Edizioni Ripostes, 2003), “Esperienze di Vuoto” (AKEA Edizioni, 2017).

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