A volte è veramente difficile non essere d’accordo con coloro che criticano l’Unione Europea per molte inadempienze nei confronti del nostro Paese, specialmente nella gestione del fenomeno della immigrazione.
Ma lascia sconcertati la sentenza della C.E.D.U. per il caso Provenzano in quanto, sulla base di della stessa sentenza, sembra che l’Italia sia al livello dei paesi che praticano la tortura, e che si sia accanita contro un povero vecchio e che il fatto di essere stato uno dei capi di Cosa nostra e di essersi macchiato di centinaia di delitti non doveva avere alcuna influenza per la giustizia italiana.
Il nostro Paese è stato condannato dalla Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo per non aver concesso al Boss dei boss, Bernardo Provenzano, di non essere più detenuto in regime di 41.bis, il carcere duro, allorquando gli venne diagnosticato, nel marzo 2016, il cancro alla prostata che lo portò alla morte avvenuta poi il 13 luglio 2016,
Ma In questo caso l’Unione Europea non centra nulla, perchè la Corte, pure essendo in Europa, non ha nulla a che vedere con gli organi dell’UE.
Secondo la Corte di Strasburgo, il nostro Ministero della Giustizia ha violato l’articolo 3 della Convenzione, riguardante la proibizione di trattamenti inumani o degradanti. Allo stesso tempo, la Corte ha stabilito che non c’è stata violazione del medesimo articolo 3 in merito alle condizioni della detenzione (sic!): quando si dice coerenza.
La Corte Europea dei Diritti Umani, con sede a Strasburgo, è un organismo sopranazionale, fondato nel 1959 dalla “Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle sue Libertà Fondamentali”, dopo che nel 1950 era stata emanata la “Carta fondamentale dei diritti dell’uomo”. La Corte di Strasburgo è un organismo giudiziario al quale tutti possono rivolgersi se ritengono di essere stati perseguiti oltre i limiti della Carta dei diritti umani, come ha fatto appunto la famiglia Provenzano allorquando al boss Bernardo venne diagnosticato il male in base al quale la famiglia aveva ritenuto che la sua situazione patologica fosse incompatibile con il regime di detenzione dura basato sull’art. 41.bis del codice penale che viene assegnato ad alcuni delinquenti particolarmente pericolosi, condannati con pena definitiva, al fine di evitare che pure dal carcere possano continuare a delinquere e magari a guidare le organizzazioni malavitose esterne.
Essa svolge una funzione sussidiaria rispetto agli organi giudiziari nazionali, in quanto le domande sono ammissibili solo una volta esaurite le vie di ricorso interne, come prevede la stessa convenzione nonché le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute.
Il nostro paese ha tantissime lacune, e non manchiamo mai di evidenziarle, ma in questo caso, proprio grazie all’art. 41.bis, ha risolto enormi problemi che, purtroppo, nelle segrete stanze della Corte di Strasburgo non sono stati ben compresi o ben valutati; e da ciò è derivata l’assurda condanna dell’Italia, in base alla quale è possibile che gli eredi Provenzano chiedano pure un risarcimento.
E’ il caso di riepilogare, sia pure sinteticamente, chi sia stato Bernardo Provenzano, uno dei più sanguinari capi di Cosa Nostra, che si è macchiato, durante la sua lunga vita, di centinaia di delitti.
“Binnu u’ tratturi” (Bernardo il trattore), come veniva chiamato dai suoi accoliti per la determinazione e la violenza con cui guidava l’organizzazione, era nato a Corleone il 31 gennaio 1933, ed intraprese la sua attività delinquenziale in giovane età, con furti di bestiame e di generi alimentari; poi si legò a Luciano Liggio e iniziò la sua ufficiale carriera mafiosa nel 1958 allorquando, in un conflitto a fuoco con i Carabinieri venne ferito alla testa e arrestato: aveva fatto, così, un salto di qualità e divenne un assassino spietato, brutale e molto violento.
La sua latitanza ebbe inizio il 10 settembre del 1963, quando i Carabinieri di Corleone lo denunciarono per l’omicidio del mafioso Francesco Paolo Streva, oltre che per associazione per delinquere e porto abusivo di armi.
Provenzano si rese irreperibile ed Iniziò una latitanza record: è stato infatti uno dei latitanti più ricercati, ed è riuscito a vivere in clandestinità per ben 43 anni.
Nel 1974, dopo l’arresto di Luciano Liggio, Bernardo Provenzano e Salvatore Riina divennero reggenti della famiglia mafiosa di Corleone e insieme fecero un salto di qualità; fino ad allora la loro zona di influenza era stata quella dei campi, e le loro vittime i viddani (i contadini, in dialetto siciliano); Provenzano e Riina non si accontentarono più, puntarono al vertice di Cosa nostra, e delitto dopo delitto, fecero terra bruciata, eliminarono tutti i boss rivali e insediarono, nel 1981, una nuova “Commissione”, una cupola composta solo da capi-mandamento ad essi fedeli: erano riusciti a conquistare il vertice di Cosa Nostra che non lasceranno più fino alla loro morte.
Vane sono sempre state le ricerche di Provenzano il quale, grazie alla sua abilità e agli appoggi di familiari, fiancheggiatori e amici riuscì sempre a cavarsela: uno degli episodi più eclatanti fu quello che lo vide protagonista, alla fine degli anni ’90, di una incomprensibile svista ad un posto di blocco in provincia di Enna; i militi non lo riconobbero, la cosa venne fuori dalle dichiarazioni successive del pentito Angelo Siino. Anche nel 2001 i Poliziotti, individuato il covo, furono ad un soffio dall’arresto, ma Provenzano riuscì ad ecclissarsi.
Dopo le stragi di mafia che avevano messo in ginocchio la Sicilia e in crisi lo Stato, il 15 gennaio del 1993 i Carabinieri del Ros arrestarono il boss Totò Riina. Provenzano rimase da solo al vertice e la strategia cambiò, passando dalla gestione violenta, con bombe e attentati, che aveva caratterizzato il periodo di Riina, ad una gestione più defilata, e non perché egli fosse meno violento, ma perché aveva capito che quella strategia oramai non era più redditizia, che la Mafia doveva concentrarsi sugli affari, che richiedevano minore visibilità ma portavano maggiore lucro, quindi meno azioni eclatanti e maggiori “agganci” ad ogni livello.
L’uomo più invisibile del mondo aveva delineato una organizzazione malavitosa più nascosta, meno in vista, ma più redditizia.
Oramai Provenzano si riteneva un intoccabile, tant’è che nel 2003, spacciandosi per un panettiere, si recò in Francia dove, in una clinica di Marsiglia, si sottopose ad un intervento chirurgico alla prostata; fu aiutato, in questa eclatante trasferta, dai mafiosi di Villabate, una città vicino Palermo, che gli fornirono documenti falsi per il viaggio e il ricovero; questo episodio venne fuori dopo due anni, al termine di una indagine che si concluse con l’arresto di una cinquantina di suoi fiancheggiatori.
Bernardo Provenzano era un tipo molto riservato e previdente; la sua cultura e mentalità contadina lo portarono sempre a diffidare della tecnologia e a non desiderare agi e comodità. La sua dimora, almeno quella venuta fuori dopo la sua cattura, era poco più di una spelonca, ridotta all’indispensabile: un giaciglio, un tavolo, un piccolo frigorifero, qualche piccolo elettrodomestico (la foto evidenzia, come unica concessione al consumismo, un frullatore), un gabinetto, cibi ridotti all’essenziale; nella dispensa cicoria, miele e ricotta; ma tanti crocifissi, immagini religiose e una Bibbia, consumata dall’uso e dalle annotazioni. C’è chi sostiene che quella Bibbia sia stata un codice segreto attraverso il quale il Boss comunicava con i suoi collaboratori più stretti, ma la cosa è rimasta un mistero.
Niente telefoni e ancora meno telefonini e continui cambi di nascondigli. L’unico strumento di cui quotidianamente si avvaleva era una piccola macchina da scrivere che utilizzava per scrivere i famosi “pizzini”, i bigliettini attraverso i quali impartiva disposizioni alla organizzazione mafiosa, taluni scritti a penna, ma la maggior parte dattiloscritti, che passavano di mano in mano fino a raggiungere i destinatari; il che denota due cose, prima l’assoluta fedeltà dei suoi seguaci che recapitavano i messaggi, poi una organizzazione meticolosa, basata su una catena composta da tanti rami, talché, se anche uno fosse stato scoperto dalla Polizia, sarebbe stato molto problematico ricostruire l’intera filiera.
Ma la partita a scacchi tra Provenzano e lo Stato stava volgendo al termine; seguendo i collaboratori di Provenzano e i suoi pizzini, i poliziotti della Squadra Mobile di Palermo, insieme agli Agenti dello Sco, il Servizio Centrale Operativo della Polizia, stavano chiusero il cerchio e l’11 aprile 2006 riuscirono a porre fine alla sua latitanza; fu lo stesso Provenzano a confermare chi fosse ed a complimentarsi con gli agenti, stringendo le mani ai poliziotti che lo avevano arrestato; solo allora se ne riuscì a conoscere, finalmente, il vero volto.
Provenzano durante la sua lunga carriera malavitosa ha accumulato circa 20 ergastoli, anche per stragi e omicidi eccellenti: la strage di Capaci (attentato a Falcone), di Via D’Amelio (attentato a Borsellino), gli omicidi del Commissario Cassarà, del Generale Carlo Alberto della Chiesa, per citare solo i più eclatanti; ma anche tantissimi altri omicidi all’interno della organizzazione mafiosa che ha guidato.
Nel marzo 2011 fu confermato che Provenzano era affetto da cancro alla prostata: evidentemente l’intervento chirurgico di Marsiglia del 2003 non era stato risolutivo; a seguito di ciò i suoi avvocati inoltrarono la richiesta di liberarlo dal regime di carcere duro di cui all’art. 41.bis, giustificandola con la necessità di cure e terapie che in tale regime non potevano essere fatte, ma la richiesta non fu accolta in quanto fu dimostrato che, anche in quel regime, veniva ben curato.
Nonostante ciò ora la Corte di Strasburgo ha emesso questa incredibile e controversa sentenza, accumunando l’Italia ad un paese di torturatori.
Vedremo quali sviluppi avrà ora la vicenda, ma con l’amaro in bocca che al peggio non c’è mai fine e che, spesso, anche le organizzazioni internazionali fanno il possibile per mettere i bastoni tra le ruote a tutela di utopie o di prese di posizione che sembrano non stare né in cielo né in terra.