“Se il tuo vicino è stato rinviato a giudizio per pedofilia, tu, se ti dovessi allontanare da casa per qualche giorno, gli affideresti tua figlia minorenne?”
Lo scorso 15 maggio, intervistato da Giovanni Floris a Di Martedì, il giudice Piercamillo Davigo rispondeva così alla domanda sulla ‘presunzione di colpevolezza’ dei politici rinviati a giudizio. Il giornalista gli aveva chiesto se fosse giusto che un politico, eletto ed impegnato nelle istituzioni, sia sospeso dalla carica sulla base di un mero rinvio a giudizio.
La risposta data dal magistrato di primo acchito sembra sensata: così come nessuno affiderebbe la propria figlia minorenne ad un sospetto pedofilo, è prudente che i cittadini non affidino la res publica ad un imputato per gravi reati. Sembra logico, ma è un’aberrazione. Sulla base di questo ragionamento si mette un potere elettivo, quello politico, nelle mani di uno non elettivo, quello giudiziario. Il quale può farne un uso nobile, ma anche ignobile.
I magistrati sono uomini, come tutti gli altri. Hanno le loro ambizioni, le loro aspirazioni, le loro eccellenze e le loro mediocrità. Tra loro, insieme ai tanti integerrimi che mettono la propria vita al servizio dello Stato, ci sono di quelli che curano con attenzione la propria immagine e le proprie carriere. E di quelli che spesso – troppo spesso per la verità – vagheggiano per se stessi il passaggio dalle aule dei tribunali a quelle del Parlamento o di altre istituzioni elettive. Succede così che tra magistratura e politica si consumano ‘scambi di cortesie’. Tu politico aiuti me nella carriera ed io magistrato ti copro nei tribunali, magari con la promessa che poi diventerò deputato o ministro.
Nelle intercettazioni pubblicate di recente a proposito dello scandalo del C.S.M. si legge, tra l’altro, che solo poche settimane fa il dott. Luca Palamara, allora presidente dell’A.N.M., rivolgendosi durante una riunione carbonara al politico del P.D. Luca Lotti, con riferimento agli arresti del capogruppo del M5S al Comune di Roma, Marcello De Vito, e al non-arresto del viceministro Armando Siri della Lega, affermava: “… Siri veniva arrestato in condizioni normali! … De Vito è stato arrestato per molto meno!… è una trattativa che vogliono fare con Salvini, fidati… io non mi sbaglio“. Chi siano coloro che, a dire di Palamara, vogliono ‘trattare’ con Salvini è evidente, sono i piemme che non hanno chiesto l’arresto di Siri.
C’è poco da scandalizzarsi. L’Italia, direi meglio il mondo è andato sempre così. Non dovrebbe accadere, ma accade. C’è solo da prenderne atto.
È quello che fecero i nostri padri costituenti, quando affermarono con forza il principio dell’immunità parlamentare (art. 68 Cost.). L’esperienza del primo trentennio del secolo scorso, non solo in Italia, ma in tutta Europa, era stata tragica. Il totalitarismo si era consolidato utilizzando anche e soprattutto l’arma della persecuzione giudiziaria nei confronti degli oppositori. Capi di accusa costruiti a tavolino, arresti, condanne a morte ed esecuzioni. Così furono spazzate via le opposizioni in Russia, in Italia, in Germania e negli altri Stati totalitari.
Ultimamente in Italia il sacrosanto istituto costituzionale dell’immunità è stato preso di mira dal populismo giustizialista e, con la famigerata Legge Severino, per le cariche politiche non parlamentari, ne è stato ripudiato sinanche il principio giuridico. La Legge Severino impiega per i politici una presunzione di colpevolezza per la quale essi, al solo rinvio a giudizio, vanno sospesi dalle loro cariche. Per prudenza.
Come nel caso del pedofilo della porta accanto di Davigo. E se invece del vicino di casa – per restare a quell’esempio – il pedofilo fosse il piemme che lo ha rinviato a giudizio?