Hannah Arendt, con la sua opera “La banalità del male”, ci spiega come delle persone comuni, mediocri, senza infamia e senza lode possano compiere atrocità con leggerezza di spirito. Il male si compie con uno schiocco di dita, senza pensarci su, senza ragione. Non per divertimento, forse persino per noia. La noia ci rende apatici e l’apatia, quale assenza di emozioni, ci deresponsabilizza.
La morte di Friederick Akwasi Adofo è una storia di violenza che ci indigna, ci inquieta, ci infervora e ci avvilisce. Perché pensare che i suoi aguzzini siano stati due ragazzi di appena 16 anni ci precipita in un mondo vuoto senza speranza. Proprio come quello di Arancia Meccanica, il cui protagonista, insieme ai suoi compagni, va in giro a picchiare, vandalizzare e violentare per il puro gusto di farlo. Per noia, giustappunto. Prima romanzo, poi film e – come ultimo adattamento – la realtà.
Una realtà in cui determinate categorie sociali rappresentano zone franche, in cui tutto è consentito poiché ai margini della società. Luoghi dell’animo in cui la moralità si dissipa, i freni inibitori si allentano e l’istinto brutale divampa in un rogo di violenza.
L’auspicio è che ci siano pene esemplari ma che, soprattutto, si comprenda cosa spinga degli adolescenti ad uccidere. Quale sia il seme del male che è sciaguratamente germogliato in loro. Cosa li spinga ad essere così banali.