Alle sei circa ora italiana del 20 gennaio 2021, Joe Biden ha pronunciato il suo giuramento insediandosi, formalmente, come 46° Presidente degli Stati Uniti d’America.
L’evento chiude una delle parentesi più confuse della democrazia americana il cui apice è rappresentato dall’assalto a Capitol Hill avvenuto il 6 gennaio da parte dei sostenitori, più estremi, dell’ex Presidente Donald Trump.
Nei quattordici giorni dall’assalto all’insediamento del nuovo presidente, è stato molto difficile, se non impossibile, non imbattersi in contenuti e messaggi di critica e condanna – passionali e non del tutto a volte ragionati – sull’operato dell’ex Presidente.
Fermo restando gli errori e i limiti oggettivi della Presidenza di Donald Trump, si rende necessario uno sforzo di riflessione scevro, per quanto possibile, da pregiudizi.
Anzitutto, Donald J. Trump è stato (e probabilmente, nonostante l’impeachment, lo è tuttora), espressione di una parte della popolazione americana che, concretamente, è stata dimenticata negli anni precedenti. A partire da Bill Clinton, tra i principali protagonisti dello sviluppo della “new economy”, c’è stata una grande fetta di cittadini americani, il cosiddetto ceto medio tradizionale e gli operai degli stati del sud e del centro, che si è trovata spiazzata dal cambiamento e in difficoltà di identità sia professionale che culturale.
Mentre la globalizzazione ha proposto un modello di “delocalizzazione” propenso a spostare nei paesi in via di sviluppo le produzioni a basso contenuto innovativo, una parte della popolazione americana si è trovata, alla soglia degli anni 2000, con un’occupazione precaria.
La crisi finanziaria del 2008 ha fatto la sua parte polarizzando maggiormente una situazione in cui i democratici accrescevano i consensi nelle Università e nelle grandi città mentre nelle aree suburbane e nei piccoli centri cresceva il malcontento dei cosiddetti “loser”, i perdenti, coloro che hanno perso il treno delle opportunità della globalizzazione.
Il Partito Democratico (di Barack Obama e Hilary Clinton) non è stato in grado di dare una risposta a questo malcontento e nemmeno di dargli voce.
Grazie a questa intuizione, tra i primi ad averla, Donald Trump prende il controllo del Partito Democratico e nel giugno 2015, annuncia la sua candidatura alle Presidenziali 2016. Capisce, anzi, fiuta “cosa” vogliono sentirsi dire i “loser”, la gente delusa dagli otto anni di governo dei democratici.
Non ha una linea precisa ma un unico obiettivo quello di raccogliere i consensi degli scontenti alcuni dei quali, nel frattempo, diventano “arrabbiati”.
Per questo motivo, apre anche alle posizioni più estreme, ne raccoglie gli spunti e, tutto insieme, elabora una narrativa, irreale ma efficace, del ritorno, necessario, della “grande America” tradita e sminuita, a suo avviso, dai democrats.
Nel novembre 2016 vince le Elezioni Presidenziali non semplicemente grazie al supporto delle Corporations, sicuramente interessate agli sgravi fiscali proposti dal suo programma, e nemmeno per l’ingente patrimonio personale che Trump stesso investe nella campagna.
L’ago della bilancia è rappresentato dal fatto che Trump è riuscito, meglio degli altri, ad ascoltare ed esprimere il malcontento presente in una parte importante dell’elettorato americano.
In secondo luogo, un ulteriore elemento di analisi è rappresentato dalla politica internazionale: nel corso di tutta la sua presidenza dal 2016 al 2020, Trump ha seriamente messo l’ordine di relazioni multi-laterali costruito a partire dalla Seconda Guerra Mondiale.
Ha criticato le Nazioni Unite svilendone il ruolo, ha periodicamente e ciclicamente boicottato i vertici e gli organismi della diplomazia multilaterale, si è proposto con una strategia – semplice per quanto azzardata – fatta di aggressione e distensione.
Ora, sebbene siano chiare le negatività di tale approccio, da un’altra parte c’è un merito indiretto: quello di aver reso tutti consapevoli del fatto che non esiste sul piano internazionale un sistema alternativo in grado di contro-bilanciare gli Stati Uniti.
L’Unione Europea, che per legami e affinità storiche avrebbe tutti gli elementi per affermarsi maggiormente in campo internazionale, non ha la forza e la volontà politica di rappresentare una concreta alternativa.
Allo stesso modo, la Repubblica Popolare Cinese, per quanto potente e in ascesa, non sembra, al momento attuale, intenzionata ad assumersi il peso della responsabilità degli affari globali.
In terzo luogo, la Presidenza di Donald Trump ha reso evidente che, per quanto non istituzionalmente corretto, è possibile esercitare l’autorità di Presidente degli Stati Uniti d’Americaattraverso un social network: infatti alcune delle più grandi questioni di politica interna e internazionale sono state affrontate a colpi di“tweet”.
Ed è paradossale constatare che sia stato proprio Twitter a bloccare l’account dell’ex Presidente nel corso dell’attacco a Capitol Hill lo scorso 6 gennaio.
Se da un lato, quindi, occorre condannare gli estremismi, le irrazionalità ed evidenziare gli errori della presidenza Trump, dall’altro occorre sgombrare il campo da pregiudizi di sorta e allargarsi a una riflessione più ampia dei meriti, diretti e indiretti, del mandato dell’ex Presidente degli Stati Uniti.
Fare ciò, oltre che atto di onestà intellettuale, rappresenta uno degli strumenti più importanti di cui disponiamo per comprendere il Presente.