Mia figlia, che vive in Romagna, ieri mi ha riferito di una novantenne, sua vicina di casa, la quale le ha confessato che non avrebbe mai pensato alla sua età di vivere un’esperienza come quella di oggi. Di un Paese paralizzato e messo in ginocchio da questo invisibile nemico chiamato coronavirus. E le ha raccontato di essere tornata ai ricordi del passato. Ai tempi della seconda guerra mondiale, quando adolescente aveva provato la paura delle cannonate, delle bombe, dei soldati tedeschi, della sanguinosa lotta partigiana contro il nazifascismo, che da quelle parti seminò lutti e sofferenze.
Certo, il coronavirus ha cambiato le nostri abitudini e ci fa paura, ma è comunque meno terribile e devastante della guerra, dei suoi morti, delle sue privazioni. Insomma, il nemico è invisibile e insidioso, ma alla fine sarà sconfitto. E quello di cui ci sta privando è tutto sommato sopportabile. Non ci piovono addosso bombe, non ci sono rastrellamenti, non patiamo il freddo e le devastazioni. Abbiamo di che mangiare e di come ingannare il tempo in questo nostro essere forzatamente costretti a vivere tappati in casa.
E’ anche vero, però, che questa è la prima emergenza riguardante l’intera Penisola. E’ la prima vera prova di carattere per una società come la nostra, da troppo tempo ormai abituata a vivere nell’opulenza e nell’agiatezza. La verità è che ci credevamo superbamente invincibili e padroni del mondo. Ci stiamo riscoprendo fragili, per certi versi indifesi, impotenti e giocoforza preoccupati se non addirittura impauriti. E forse proprio per questo, da una società viziata e iper-individualista come la nostra, stanno ora prepotentemente emergendo, come anticorpi civili, valori che non sempre sono presenti nel dna italico.
In questi giorni, infatti, un po’ ovunque, ma soprattutto sui social, impazzano video ed iniziative che esaltano la forza dello spirito di gruppo, in particolare, l’italianità. Ci riscopriamo così di essere dei patrioti, senza per questo essere necessariamente nazionalisti o sovranisti. Ci ritroviamo a cantare l’Inno di Mameli. Mostriamo di essere fieri della nostra nazione. Delle sue bellezze, dei suoi tesori, della sua arte, della sua cultura e civiltà. Fino ad ieri, invece, per la nostra inguaribile e spesso ingiustificata esterofilia, più che amore mostravamo disprezzo per il nostro Paese.
E’ questa, lo confesso, una constatazione che formulo con estremo piacere. Sono tra quelli, e non mi vergogno a dirlo, cui vengono le lacrime agli occhi ogni qualvolta sventola il tricolore accompagnato dalle note dell’inno nazionale. E dico questo ricordando un episodio vissuto quarant’anni fa a Pisa quando, giovanissimo funzionario del Ministero della Pubblica Istruzione, assistetti ad una scena che mi colpì moltissimo e mi risultò incomprensibile. Era il 25 aprile del 1980 e al termine del concerto sotto la loggia del Comune, la banda militare eseguì l’Inno di Mameli. Alla fine, più che applausi sentii fischi. Una tristezza. Un dolore.
Oddio, da allora di acqua ne è passata sotto i ponti, e non solo di quelli pisani sull’Arno. Abbiamo riscoperto un po’ alla volta la fierezza di essere italiani, anche grazie a presidenti come Pertini e Ciampi, in occasione della vittoria dei mondiali di calcio in Spagna e poi in Germania, e delle altre imprese sportive. Mai come adesso, però, grazie al coronavirus (ammesso che questa non sia un’espressione blasfema) sentiamo la necessità di stringerci virtualmente in un abbraccio nazionale.
In conclusione, l’auspicio per tutti noi è che passi al più presto questa nottata. E speriamo che la nostra Italia, sia pure con un’economia profondamente ferita da questa guerra contro il nemico invisibile, ne esca migliore. Più unita. Più solidale. Più orgogliosa dalla sua identità. E soprattutto che ne usciamo migliori noi italiani. Un po’ meno egoisti. Meno individualisti. Meno opportunisti. Al contrario, ricordandoci di questi giorni, con maggiore senso civico. Con più rispetto per il bene comune e per le regole di convivenza civile. Con maggior senso di appartenenza e di partecipazione.
Sì, perché solo se ritroviamo questa dimensione civica possiamo anche far emergere una classe politica migliore, più qualificata, più preparata e competente, più credibile e autorevole di quell’attuale, tanto a Roma che nelle realtà locali. E solo se come popolo, come accadde con i nostri padri e nonni all’indomani della seconda guerra mondiale, sapremo essere capaci di una ricomposizione dei valori saremo in grado di far emergere tanto una progettualità condivisa per un rilancio del Paese quanto una classe politica adeguata alla bisogna.
Ci farà bene, così, ricordare e far tesoro dei versi di Goffredo Mameli nel Canto degli Italiani, il quale resta tremendamente attuale nonostante siano trascorsi quasi un paio di secoli:
..Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica
Bandiera, una speme:
Di fonderci insieme
Già l’ora suonò…
…Uniamoci, amiamoci,
l’Unione, e l’amore
Rivelano ai Popoli
Le vie del Signore…