Malgrado le restrizioni imposte dalla pandemia, anche quest’anno si celebra la Giornata della Legalità, soprattutto la scuola ricorda “on line” le stragi di Capaci e di via D’Amelio, anche se non bisogna dimenticare il sacrificio di tante altre giovani vite umane immolate per essa, tra cui il giornalista Giancarlo Siani.
A tal uopo si dovrebbe scegliere quale miglior slogan celebrativo, “La scuola per la città”, proprio per tener viva o magari riaccendere del tutto la fiaccola della legalità e vivibilità. Uno slogan che si presta tuttavia a qualche riflessione. Circa mezzo secolo una “modesta proposta” di Pier Paolo Pasolini sosteneva, ovviamente in termini provocatori, che la scuola (almeno quella dell’obbligo) andava abolita. Questa convinzione nasceva dalla considerazione che il degrado dell’istruzione “ufficiale” era giunto ad un tale punto di non ritorno per cui sarebbe stato meglio “staccare la spina” almeno per un po’.
Al di là della profetica provocazione pasoliniana viene da chiedersi oggi: si può davvero chiudere il luogo deputato della conoscenza, il deposito sacrale delle idee, il motore essenziale della circolazione dei saperi? È questo il primo punto in discussione al quale segue subito un altro non meno inquietante: la scuola è oggi in grado di far circolare sul serio il sapere acquisito e soprattutto lo vuole veramente fare?
Qui si tocca il cuore della questione. Sono in molti infatti, anzi sono sempre di più i diretti interessati, vale a dire gli operatori scolastici seri e preparati, a sostenere che la scuola ormai da tempo, così com’è, è del tutto inadeguata a fare da locomotiva sul sentiero dell’apprendimento, che la scuola cioè non è attrezzata né strutturalmente né intellettualmente per trasmettere la cultura e formare classi dirigenti. Non solo: ma costoro sostengono anche che gli standard culturali che la scuola deve verificare e trasmettere sono aggrediti e trasformati da altri “meccanismi educativi” veicolati in maniera palese o subliminale e irrorati ventiquatt’ore su ventiquattro dalla televisione e in parte anche -fortunatamente solo in parte- da una certa stampa.
È una battaglia inutile, persa in partenza giacché a tutto questo vanno aggiunti altri elementi disgreganti quali l’insoddisfazione profonda degli stessi operatori per come sono organizzate le carriere, la formazione didattica, le retribuzioni, la programmazione che tende sempre più a favorire la “competenza” a discapito della “conoscenza”.
Insomma, la voglia di fare veramente cultura, per tutta una lunga serie di ragioni, va a farsi benedire. E se la scuola non riesce a fare cultura allora è anche inutile parlare di legalità: perché gli slogan possono anche essere utili per stimolare, incoraggiare, incitare a non arrendersi, ma da soli non servono ad assicurare quella consapevolezza civile per cui può nascere ed instaurarsi davvero una società più matura e più giusta.
Provate del resto a parlare di bello e di vero (cioé di arte e di filosofia) con questo popolo di utenti televisivi (che sono poi di volta in volta studenti, genitori, operatori scolastici) avvezzi al pollaio dei “talk show” o provate anche solo a chiedere ad una certa borghesia quali sono i libri che ha letto o le mostre d’arte che ha visto (non solo nell’ultimo periodo ma nell’intera sua vita) o ancora quali autori o artisti o musicisti o filosofi conosce e apprezza ed avrete la risposta su quello che è attualmente “lo stato dell’arte”.
Una società senza cultura non può avere -forse perché nemmeno la merita- una scuola legale (in senso di autocertificata, viva, problematica, insomma vera).
Naturalmente a questo punto entra anche in gioco la politica e i suoi rappresentanti, ma qui vale in buona parte il discorso appena fatto per la borghesia. Allora se si vuole davvero cambiare bisogna riconoscere innanzi tutto che non basta, non può bastare una “giornata di festa”, sia pure altamente simbolica e meritoria. Si deve pretendere di più da tutti, il che significa poi da noi stessi: genitori, studenti, docenti, intellettuali, politici, abitanti tutti di un villaggio globale che appare sempre più subalterno e narcotizzato e perciò incapace anche di riconoscere e recuperare le residuali sembianze della propria coscienza civile.