“Spegnete i telegiornali!” – “Basta con i pastoni politici preconfezionati con il bilancino in studio, si ricominci con la ricerca della notizia”.
Il primo virgolettato è una provocazione del sociologo Domenico De Masi, il secondo si riferisce al piano editoriale del neo direttore del Tg1 della Rai Gian Marco Chiocci.
Il sociologo attraverso canali social ha contestato il “trucchetto” in uso in quasi tutte le reti televisive di intervistare giornalisti che “fingono di informare” al posto di “gente competente” sulla specificità delle materie trattate. Il che, secondo il suo punto di vista, è una forma di manipolazione degli “ignari telespettatori”.
Il piano del neo direttore di Raiuno, proveniente dalla Agenzia AdnKronos e da Il Tempo, ha ottenuto il consenso di 101 giornalisti dei 134 votanti, conseguendo una percentuale pari al 71,63 superiore a quelle dei predecessori: Monica Maggioni (71,25) e Giuseppe Carboni (59,06).
La sua impostazione rompe la consuetudine del notiziario cosiddetto “panino” in uso per riequilibrare, in termini di minutaggio, dichiarazioni ed espressioni di maggioranza ed opposizione sulle iniziative del Governo di turno.
L’alta percentuale del consenso riscosso lascia immaginare la voglia di un corpo redazionale di uscire dagli studi di Saxa Rubra per battere le strade dell’ascolto diretto, in presenza di notizie trovate e/o da spiegare e da approfondirle a partire dall’affidabilità delle fonti e dalla messa in forma delle voci e dei dati raccolti alle loro possibili ricadute nel dibattito pubblico, al di là della libidine per lo scoop.
Le citazioni sopra menzionate investono il modo di fare giornalismo sia di informazione che di approfondimento ed intrattenimento, in un momento storico in cui nel mondo dell’editoria si profila o sono già in uso algoritmi nella divulgazione di notizie a scapito della creatività selettiva dell’intelligenza umana. Sul punto si giocano i fondamentali del giornalismo, che non sono lottizzabili nel rendere un servizio pubblico e non barattabili in narrazioni secondo colore o appartenenza ideologica.
Si tratta di una questione di lealtà verso i fruitori delle informazioni divulgate e di salvaguardia del profilo di affidabilità del giornalista che si professa garante della rappresentazione della verità sostanziale dei fatti raccontati e si manifesta accorto nell’uso appropriato delle parole, soprattutto nell’era del Web e dei social in cui sgrammaticature ed assenza di sintassi nella scrittura vanificano le argomentazioni e ne riducono i margini di comprensione.
L’osservanza e pratica di regole deontologiche esaltano e non condizionano lo spirito di indipendenza e di autonomia del giornalista nel discernimento dei fatti e nel disvelamento di ciò che è nascosto o non piace. Purché, non siano funzionali a dossieraggi che spesso anticipano o supportano indagini giudiziarie non esaustive di verità storiche da accertare. Viceversa, qualunque ne sia l’archiviazione negli annali dei Palazzi di Giustizia, in rosso o in nero, possono assumere un valore diverso le testimonianze dei giornalisti rese in controtendenza. Anche se moleste, sono sempre necessarie per tenere desta l’attenzione su “verità di Stato” dimezzate che non sempre collimano con il diritto del cittadino a conoscerne i fatti storicamente compiuti da uomini, con nome e cognome, che ne sono stati promotori, ideatori ed attori.
Come dire che le stragi sia di matrice mafiosa o terroristica non sono figlie di nessuno o qualificabili con un solo aggettivo.