Finalmente il “difficile fine vita”, come più volte è stato definito, e cioè il travaglio di chi ha deciso di porre fine alla sua esistenza, dal 23 dicembre 2019 è divenuto molto più facile; l’ultima sentenza della Corte di Appello di Milano, che ha definitivamente assolto Marco Cappato dall’accusa di istigazione/aiuto al suicidio per aver accompagnato il DJ Fabo, al secolo Fabiano Antoniani, in Svizzera per aiutarlo ed assisterlo, insieme ai familiari, nel doloroso passaggio dalla vita alla morte, è una pietra miliare del riconoscimento della libertà di ogni singolo individuo di decidere cosa fare della sua vita se, ad un certo punto, diventa insopportabile.
Ciascuno di noi nasce libero, vive libero, e ciò è universalmente riconosciuto. Ed è titolare di un diritto che viene definito “libero arbitrio”, la capacità di scegliere liberamente, nell’operare e nel giudicare.
Ma ci sono anche teorie contrapposte in base alle quali il futuro di ciascuno di noi è in qualche modo predeterminato da fattori sovrannaturali o naturali, ed è inutile ogni tentativo di modificarlo e la nostra vita deve essere presa in maniera fatalistica: da Treccani “il fatalismo è una concezione che considera il mondo governato da un fato irrevocabile, e va accettata passivamente perché nulla potrà far mutare il corso degli eventi”.
In parole povere c’è la contrapposizione tra un destino predeterminato che nessuna volontà umana può cambiare e la concezione che il destino lo costruisce l’uomo momento per momento e che, pertanto, l’uomo può influire sul suo futuro, modificandolo.
Tantissimi teologi, filosofi e umanisti si sono cimentati nel tentativo di dimostrare se il libero arbitrio è effettivamente esercitabile da ciascuno di noi a 360.gradi, oppure vi è un limite oltre il quale non è consentito andare. Fin dall’antichità si è discusso su tale principio, se ne sono occupati personaggi insigni come Sant’Agostino, San Tommaso, Martin Lutero, Giansenio, Erasmo da Rotterdam, per citarne alcuni tra i più conosciuti.
Non si è mai giunti ad una conclusione, e non lo si poteva perché l’argomento investe la singolarità dell’individuo, basata sulla cultura, sulla formazione, sulla fede, e ciascuno ci gira intorno senza mai giungere ad una conclusione; e se pure lo fa è possibile che nel corso dell’esistenza muti orientamento.
Ovviamente il discorso è per tutte le azioni che l’uomo compie durante l’esistenza, e non si comprende perché non possa esercitare questa prerogativa anche per decidere del suo fine vita, o, qualora fosse nelle condizioni di non poterlo fare personalmente, chi lo potrà fare per lui.
Infatti può giungere il momento in cui la libertà di scelta del fine vita può essere sottratta alla volontà o alla possibilità del singolo per il sopraggiungere di una serie di condizioni che interrompono le sue prerogative e lo privano della libertà, non intesa come la costrizione fisica al pari di quella di un carcerato, ma come impedimento fisico di disporre della sua vita; come se dalla nascita in poi fossimo liberi di nascere, vivere, fare tutto, ma per la morte non lo fossimo più.
Su questa materia anche negli ultimi decenni la contesa è stata aspra, contrapponendo l’assoluta libertà di autodeterminazione all’assoluta privazione di tale libertà, contesa che si è alimentata nella società, nella Chiesa, e nella politica, troppo spesso influenzata dalla gerarchia ecclesiastica che ha sempre dettato le sue regole, bloccando ogni decisione e ogni pur minima apertura.
I numerosi casi di situazioni al limite della sopportazione, da Eluana Englaro a Piergiorgio Welby, per citarne solo due, hanno dimostrato quanto la politica fosse impotente, e quanto difficile fosse la realizzazione del desiderio di porre fine alle sofferenze, sia che il paziente dimostrasse la volontà di farlo (come nel caso Welbi) sia che fosse la famiglia, forte della volontà precedentemente espressa dall’ammalato, a doverlo fare (come nel caso Englaro).
In questa situazione di “impasse” si è inserito il caso del DJ Fabo, che oramai tutti conoscono; a seguito di un incidente il giovane, forte, aitante e pieno di vita, diventa cieco, paraplegico e soggetto ad un accudimento continuo e a rimanere in vita solo se legato a macchine e terapie forzate, e a nulla sono valse le istanze che familiari e amici hanno rivolto ai medici, ai magistrati e alla politica di porre fine a quello stato vegetativo.
Fino a quando, per l’inerzia della nostra politica, i familiari e gli amici decisero di porre fine alle sue sofferenze recandosi in una clinica svizzera che guidò il poveretto verso la liberatrice morte.
Il Partito Radicale è sempre stato in prima linea per il riconoscimento della libertà di autodeterminazione del fine-vita, e uno degli esponenti di tale partito, Marco Cappato, non solo fu disponibile ad accompagnare, unitamente ai familiari, il povero giovane, ma si autodenunciò proprio per costringere la politica a intervenire.
Ma la politica di questo paese se deve adottare decisioni che vadano contro corrente, contro la ortodossia stabilizzata e guidata da certe gerarchie, ha mille tentennamenti, pone mille ostacoli, si impegola in annose discussioni senza mai arrivare ad una conclusione, preferendo non muovere le acque e lasciare tutto com’è: meglio lo “statu-quo” che impelagarsi in diatribe nelle sedi istituzionali.
Ma vi sono problemi che, prima o poi, debbono essere affrontati e risolti, arriva il momento in cui un paese non si può sottrarre alla responsabilità di decidere, e fortunatamente le strade per metterlo con le spalle al muro sono tante, e istituzioni che non possono usare la tattica del tirare a campare: e così è stato per la questione del fine vita.
La conclusione dei casi Englaro e Welbi è stata certamente più lunga e difficile e in quanto, contrariamente a quella del DJ Fabo, si è dovuto penare per anni prima che una sentenza o un medico pietoso intervenissero, pure nell’assenza di norme. Per il DJ Fabo, invece, è stata scelta un’altra strada, quella di andare all’estero per staccare le apparecchiature, e se non fosse intervenuta la volontà di Marco Cappato di autodenunciarsi, tutto sarebbe rimasto fermo.
La autodenuncia di Marco Cappato ha provocato una specie di terremoto in quanto ha costretto la Magistratura ad intervenire, con vari passaggi e conseguenze successive.
Riepiloghiamo, per sommi capi, la vicenda, iniziando dal 27 febbraio 2017 quando, in una clinica svizzera, Fabio Antoniani alle ore 11,40 mordeva il pulsante che alimentava l’immissione del medicinale letale che lo portò alla morte; era assistito dai familiari, dalla fidanzata e da un gruppo di amici, tra i quali Marco Cappato il quale, nel darne notizia, dichiarò che al rientro in Italia si sarebbe autodenunciato, cosa che effettivamente fece, con un gesto di disobbedienza civile, ai sensi dell’art. 580 c.p. per il reato di aiuto al suicidio.
Il Tribunale di Milano all’inizio chiese l’archiviazione del caso, ma su opposizione del GIP, fu costretto a procedere e nel mese di luglio 2017 dispose che Cappato venisse processato; la Procura della Repubblica suggerì al Giudice di sollevare la questione di legittimità costituzionale della parte dell’art. 580 che prevede la punibilità di chi agevola l’eutanasia di un malato terminale che non è in grado di compierla da solo.
Si giunse all’autunno del 2018 e la Corte Costituzionale non volle pronunciarsi, rinviò la decisione di un anno e chiese al Parlamento di riempire il vuoto legislativo esistente con una legge che contemplasse il caso specifico.
Il Parlamento ha lasciato passare un anno senza provvedere, e il 25 settembre di quest’anno la Corte Costituzionale ha sentenziato aprendo uno spiraglio sulla legittimità del suicidio assistito, ed ha rinviato il processo alla Corte di Assise di Milano la quale, in data 23 dicembre di quest’anno ha assolto Marco Cappato perché il fatto non sussiste: il che sta a significare che non è punibile chi aiuta un malato terminale che abbia manifestato tale volontà a staccare la spina.
In conclusione, alla inerzia del parlamento ha sopperito la Consulta e la Magistratura con una sentenza che fa epoca e che avrà certamente ripercussioni notevoli in futuro in favore dell’eutanasia; frattanto contro tale apertura si sono già mobilitate le gerarchie ecclesiastiche e qualche parlamentare ad esse fedele come, ad esempio, il senatore leghista Samuele Pillon il quale ha dichiarato che con questa sentenza “stiamo andando verso il suicidio di Stato e ci siamo persi qualsiasi riferimento alla sacralità della vita”.
Siamo certi che la questione non si fermerà qui, ma siamo altrettanto certi che ormai da questa sentenza scaturisce una maggiore libertà per tutti i cittadini: il che non sta a significare che da oggi in poi ci sarà una eutanasia diffusa e obbligatoria, come tentano di far capire coloro che sono contrari, distorcendo la realtà, ma solo che da oggi chi vuole può morire in pace e chi lo aiuta e lo assiste non potrà essere punito.