Coronavirus, l’enigma del “nulla sarà come prima”
Le parole non sempre corrispondono alla realtà delle cose dette. Se ne comprendono le imprecisioni o il loro uso inadeguato quando, in politica, si è costretti a gestire emergenze che richiedono risposte in tempo reale e non si ha completa conoscenza dei fenomeni e fatti da affrontare.
Altra cosa è quando si comunicano direttive comportamentali che interferiscono con i diritti dei cittadini ed il loro esercizio. In tal senso qualcosa di anomalo è riscontrabile nel linguaggio con cui il Presidente del Consiglio dei Ministri, Giuseppe Conte, ha illustrato in diretta TV i provvedimenti per la gestione della cosiddetta fase due del lockdown.
L’uso appropriato dei verbi non è una formale questione di semantica, perché si presuppone che dietro ciascuno di essi ci sia una volontà di pensiero per non scadere in vaghezza o sciatteria. Perciò, non è normale sentir dire dalla voce del Capo del Governo di una Repubblica democratica, rivolgendosi agli italiani: “Consentiamo l’accesso ai parchi e passeggiate” oppure “chiudiamo il rubinetto”.
Si tratta un modo di comunicare da “monarca”, senza precedenti nella storia repubblicana, che ha sollevato più di una osservazione sulla natura del Governo che preferisce navigare con la bussola dei tecnocrati piuttosto che sulle orme della Costituzione che privilegia “leale collaborazione di tutte le istituzioni, compresi Parlamento, Governo, Regioni, Giudici” come si legge nella relazione annuale della Corte Costituzionale resa dal suo Presidente Maria Catarbia.
Al di là dei crismi di costituzionalità dei decreti emanati uno dopo l’altro, è la straordinarietà del momento in cui si incrociano pandemia da coronavirus e crisi economica e sociale che fa avvertire la necessità di coinvolgere il Parlamento finora bypassato o messo di fronte a fatti compiuti ed a decisioni già assunte dai Comitati tecnico-scientifici.
La richiesta di funzionamento dei canali istituzionali, nella loro collegialità, proviene da forze politiche di maggioranza e di opposizione, per cui non si può più agitare il mantra in base al quale ogni critica rivolta al Governo Conte favorirebbe Salvini e la Meloni.
E’ verosimile la vaghezza di una politica senza identità in carenza di una sovranità che non si capisce chi sia abilitato ad esercitarla nell’ambito del pluralismo delle voci e dei poteri. Non è il caso di fomentare fantasmi autoritari o di sospensione delle regole della democrazia; è più appropriato parlare di fragilità degli equilibri politici nel cui stallo c’è spazio per i sermoni mediatici degli “influencer”.
L’uso spregiudicato delle dirette televisive ne evidenziano gli intenti che puntano più sulle suggestioni che ai ragionamenti. Si cerca il successo funzionale al marketing piuttosto che propedeutico ad atteggiamenti riflessivi.
Il rischio per chi esercita funzioni pubbliche é di finire in un campo minato del botta e risposta, che per loro natura sono fonti di idiozie. Si capisce il ricorso all’ausilio dei tecnici e “mai come oggi, le società stressate dalle necessità di sopravvivere ai numerosi fattori di crisi richiedono competenze” (citazione dal libro “Mai più senza maestri di Gustavo Zagrebelsky). Ma i tecnici – osserva il Presidente emerito della Corte Costituzionale – “operano sotto la dittatura del presente” ed “il loro compito è conservatore”, nel senso di “cambiare qualcosa perché nulla cambi”, e “sono al massimo esperti, non maestri”.
Appunto chi sono i maestri e dove sono legittimati ad accompagnare cambiamenti di “rapporti sociali, modelli economici e politici, convenzioni e convinzioni”?
E’ banale dirlo, ma non bastano le dirette televisive e le compiacenze mediatiche per riassorbire le tensioni del Paese reale. Resta l’enigma del nulla sarà come prima, a prescindere dal rassicurante slogan-dogma: “tutto finirà bene”.