Qualche anno addietro mi trovavo presso il grande e affascinante Santuario della Verna, nella provincia di Arezzo, sul Monte Penna a 1228 metri di altezza, edificato dai Frati francescani proprio nel luogo in cui San Francesco ricevette, dopo 40 giorni di digiuno, le stimmate il 14 settembre 1224, e intorno alla caverna nella quale il Santo, rifugiatosi in quel romitaggio per essere più vicino al suo Gesù, dormiva.
Quel Santuario con l’annesso convento, il cui primo nucleo risale al 1213, dopo che il Conte Orlando di Chiusi in Casentino, colpito dalla regola dei frati, ebbe a donare agli stessi il monte della Verna, sul quale i frati iniziarono la costruzione di piccole celle per ripararsi dai rigori della montagna, venne successivamente più volte ampliato; ma non ha perso il suo fascino iniziale e lo scopo della sua edificazione, principalmente quello della contemplazione e del raccoglimento in se stessi, cosa delle quali abbiamo enorme bisogno, ma che oggi, tra mille distrazioni, raramente riusciamo a fare.
Era il periodo autunnale e a quella altezza l’autunno è più rigido e umido del nostro inverno; il freddo era intenso, l’umidità non era da meno, e la nebbia era una coltre ovattata che racchiudeva quasi interamente il grande santuario e gran parte del monte.
Sull’imbrunire mi ritrovai a gironzolare all’esterno del complesso e il mio girovagare era accompagnato dalle note di una musica d’organo proveniente dall’interno della Chiesa di Santa Maria degli Angeli, che fa parte del complesso, nella quale poco prima avevo assistito alle cerimonie religiose del vespro.
L’antichità della struttura monastica, la solitudine della montagna che l’accoglie, la nebbia che l’avvolgeva, il suono dell’ organo, sommesso e in lontananza, conferivano al luogo, in quel momento, un qualcosa di celestiale, una immagine paradisiaca di grande intensità, tale da richiamare alla mente il Vangelo secondo Matteo (17,4) allorquando “Pietro disse: Signore, è bello per noi stare qui; se vuoi, farò qui tre tende, una per te, una per Mosè e un’altra per Elia”, espressione del desiderio di isolarsi dalla folla per godere, già in vita, la pace del paradiso.
E’ questa scena e questo senso di pace che mi sono ricomparsi nella mente sabato sera nella Chiesa di San Francesco e Sant’Antonio qui a Cava in occasione della inaugurazione del grande Organo e del concerto che è seguito.
Cos’è, mi sono chiesto, una chiesa senza un organo?
E’ come una quercia senza foglie, un’estate senza cicale, una notte senza lucciole, una famiglia senza la voce dei figli.
E’ stata meritoria l’opera dei frati di restaurare ulteriormente il grande organo, danneggiato dal terremoto del novembre 1980, che distrusse la chiesa e il convento, che già aveva avuto un primo restauro e che oggi, con l’ultimo restauro, costato circa 150.mila euro, è divenuto uno dei più importanti della regione, con le sue oltre 3000 canne.
L’inaugurazione è avvenuta alle ore 20,30 in una chiesa gremita, e la solenne cerimonia ha fatto registrare la presenza dall’Arcivescovo Orazio Soricelli, che ha benedetto lo strumento e si è compiaciuto con la comunità per le tante iniziative, e la rappresentanza dell’amministrazione cittadina, oltre che di numerose autorità cavesi.
La inaugurazione dell’organo è avvenuta con la partecipazione del Maestro organista napoletano Angelo Troncone, il quale ha eseguito musiche di G. F. Handel, J. S. Bach, R. Schumann, G. Morandi, A. Dvorak e N. Hakim.
E’ anche intervenuto il tenore Fra Alessandro Brustenghi, direttamente dalla Cattedrale di Assisi, che ha concluso cantando “Fratello Sole – Sorella Luna” di Riz Ortolani.
La cerimonia della inaugurazione dell’organo restaurato coincide con il rientro di Fra Gigino Petrone nella comunità francescana metelliana, che anche di quest’opera, come di tante altre, è la mente organizzatrice e la spinta realizzativa, come riconoscono anche i suoi confratelli e tutta la comunità che lo sostiene.