scritto da Eugenio Ciancimino - 06 Maggio 2020 10:06

Bonafede vs Di Matteo, un pasticciaccio che turba le coscienze civili

Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia (foto tratta da profilo Fb)

Non è un argomento da tifoserie la vicenda che ha per protagonisti il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e l’ex PM antimafia, ora membro del CSM, Nino Di Matteo.

La querelle tra i due è scoppiata nella trasmissione de “La 7” “Non é l’Arena”, condotta da Massimo Giletti, dedicata alle dimissioni rassegnate dal Direttore del DAF, Francesco Basentini, a seguito della scarcerazione dal regime del 41 bis di uno dei massimi esponenti del clan camorristico dei “casalesi”.

Non si può dire che sia stato un bello spettacolo che si possa prestare ad una disputa di cori pro e contro a fronte di discordanti punti di vista resi da figure rappresentative di organi istituzionali sensibili per la credibilità dello Stato nell’amministrare la Giustizia. Perciò, non è una caccia alle streghe né un’occasione di sputtanamento tra forze politiche contrapposte nell’impegno antimafia se si chiede di portare la vicenda nei luoghi deputati al chiarimento con relative assunzioni di responsabilità rispetto alle cose dette in TV.

Si tratta, da parte del Ministro Bonafede, di rendere al Parlamento la conoscenza delle motivazioni che lo hanno indotto a preferire, nel 2018, per la Direzione del DAP Basentini al posto di Di Matteo e da parte di quest’ultimo di riferire al CSM contenuti e modalità delle conversazioni avute con il Ministro e di sottoporsi ad eventuali valutazioni dell’organo di governo della Magistratura.

La richiesta di dimissioni di Bonafede avanzata da FdI e Lega può essere valutata come una provocazione ma, nel contempo, non può essere accolta come una sorta di lesa maestà del Ministro o per di più un vulnus  alla genuinità di lotta alla mafia messa in campo dal M5S.

Va presa come una presunzione puramente dogmatica, perché  c’è di mezzo il galateo istituzionale che farebbe apprezzare, se ci fosse, una volontaria richiesta del Ministro di riferire in Parlamento e di pretendere un voto. La questione riguarda il senso delle parole usate nel racconto dei fatti, perché se esso conduce a conclusioni divergenti vuol dire che uno dei due approfittando del mezzo televisivo abbia voluto mistificare o prendere le distanze sulle sconcertanti scarcerazioni, incuranti delle suggestioni comunicative in costanza di contagi da coronavirus. Non è in discussione la rettitudine dell’uno e dell’altro rispetto alle minacce ed ai tumulti covati nelle carceri. Ma data la levatura degli Uffici di cui entrambi sono titolari non è infondata l’ipotesi che almeno uno si sia comportato da pasticcione e l’altro abbia recitato la parte del mitomane e viceversa di ruoli.

Il che non è esimente per entrambi. Al di là della rispettabilità dei profili culturali dei due ed a parte le infinite e mai concluse indagini su presunte trattative tra mafia, politica e mondo delle istituzioni, ciò che lascia l’amaro in bocca è la rappresentazione della permeabilità degli apparati dello Stato da parte dell’opera silente della mafia che si serve sia di favoreggiatori collusi che di utili idioti dell’antimafia recitata secondo un antico copione scritto con l’inchiostro dell’odio politico.

Come dire che le appartenenze fanno da velo o assolvono dall’essere consapevoli o corresponsabili dei misfatti della criminalità organizzata. Ancora una volta è stata bypassata o perduta un’occasione per superare la soglia dei sospetti e delle diffidenze che turbano le coscienze della società civile.

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