scritto da Eugenio Ciancimino - 07 Febbraio 2023 11:36

Autonomie e polveroni differenziati

L’ultimo miglio del regionalismo rinforzato o differenziato, che dir si voglia, è rappresentabile dal come procederà il cammino della proposta

Oggi si dice che le autonomie differenziate conferibili alle Regioni spaccherebbero il Paese, così come in sede di confronto alla Costituente, nel 1947, fu detto che la loro istituzione avrebbe ridotto l’Italia in pillole.

Si optò per uno Stato regionale, il cui dettato costituzionale fu posto in essere 22 anni dopo, nel 1970. Congelato dal clima della cosiddetta “guerra fredda”, che impediva al PCI di assumere posizioni di potere, il nodo si sciolse a seguito di un accordo di disgelo politico tra la DC ed il maggiore partito d’opposizione, cui fu data la possibilità di esercitare funzioni di Governo su almeno tre significative aree dell’Italia centrale, le cosiddette Regioni rosse per conforti elettorali: Emilia Romagna, Toscana ed Umbria.

Come dire che il certificato di nascita delle Regioni ordinarie fu rilasciato  più per motivi di equilibrio politico che per migliorare l’organizzazione territoriale dello Stato.

Il relativo atto legislativo fu approvato da DC, PRI, PSDI, PSI e PCI con l’opposizione di PLI, MSI e Monarchici. Al traguardo dei primi trent’anni di vita, le loro performance non potevano dirsi esaltanti sul piano fattuale, soprattutto nelle Regioni meridionali dove la mission del nuovo istituto si è rivelata più un’occasione di dilatazione del ceto politico che lo strumento di abbattimento delle resistenze a politiche speciali “per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole” come previsto nell’articolato della Costituzione del 1948 e cancellate nella riformulazione del 2001 del relativo titolo V.

Quest’ultima, operata nel clima della “devolution”, rivendicata dalla Lega, ha sancito il principio delle autonomie differenziate che consente a ciascuna Regione, escluse quelle a Statuto speciale, di chiedere la possibilità di legiferare su un elenco di materie di non esclusiva potestà dello Stato, tra cui sanità, istruzione, ambiente e produzione di energia.

Varata da una maggioranza di centrosinistra, il primo approccio di attuazione inizia nel 2017 con richieste di trasferimenti di poteri avanzate da parte delle Regioni Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna alle quali sono seguiti nel Febbraio del 2018 accordi preliminari con il Governo nazionale presieduto da Paolo Gentiloni.

Vi si accodarono anche Governatori di altre Regioni, tra cui quelli del Piemonte e della Campania. L’iter si è arenato per tutta la legislatura originata dalle consultazioni politiche del 2018, vinte da M5S, e travagliata da maggioranze umorali piuttosto che politicamente omogenee, di cui sono state espressioni sia le due esperienze di Governo condotte da Giuseppe Conte che quella tecnica o di tregua di Mario Draghi.

L’ultimo miglio del regionalismo rinforzato o differenziato, che dir si voglia, è rappresentabile dal come procederà il cammino della proposta Calderoli approvata all’unanimità dal Consiglio dei Ministri ed ora affidata, in maniera macchinosa o “barocca” (copyright del costituzionalista Ainis), al dibattito parlamentare ed al confronto sotto forma di convenzioni tra Stato e Regioni.

Condivisibile o contestabile, essa trae origine da un dettato costituzionale concepito ed articolato da forze politiche facenti parte di una coalizione di centrosinistra con in più la Lega di Bossi ed ora ricompreso nel programma elettorale e di legislatura dell’attuale compagine governativa di centrodestra, di cui è partner la Lega in versione salviniana.

Sul punto, si può constatare come la logica della differenziazione sia stata una costante della Lega e, al di là delle odierne prese di posizioni, rientri nel bagaglio delle esperienze praticate dalle forze dell’intero arco dei gruppi rappresentati in Parlamento.

La partita si gioca sulle quote di spesa pubblica pro capite e sui livelli di servizi e prestazioni equivalenti per aree e cittadinanze. Si tratta di definire e finanziare ii cosiddetti Lep e di istituire un fondo perequativo per compensare i territori con minore capacità fiscali, entrambi previsti in Costituzione ma per i quali nella bozza Calderoli non c’è la relativa copertura in bilancio. Si rimanda tutto a futura memoria.

Tanto rumore sul Paese che si spacca o che si avvia verso il federalismo delle responsabilità. Sarebbe più appropriato  definirne il dibattito in corso  come un polverone sollevato da una parte, sotto forma di allarme, da chi punta a raccogliere i malcontenti delle aree svantaggiate, e dall’altra parte, da chi, sotto forma di spot elettorale, ha da mostrare lo scettro di una promessa mantenuta, dopo decenni di attesa.

Come dire differenziati nei linguaggi, apocalittico o trionfalistico, comuni negli intenti di acquisire consensi elettorali.

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