scritto da Pino Pisicchio - 01 Ottobre 2016 09:25

Appropinquante fine mundi

La politica ferma nell’attesa del referendum costituzionale del 4 dicembre in un clima da tifoseria calcistica e di convulsione mediatica

Quando mancava una manciata di anni all’ avvento dell’anno mille, indicato nelle profezie ed anche nelle antiche scritture come l’anno della fine dell’umanità, i “notari” italiani cominciavano a scrivere i loro rogiti con un incipit inquietante: “appropinquante fine mundi”, considerando quella data fatidica, dunque, come lo spartiacque tra un presente forse difficile ma certo ed un futuro così incerto da mettere nel conto anche la fine di tutto.

Ecco, così stiamo facendo con il referendum costituzionale: la politica è ferma, attonita, in attesa.

C’è, però, una certa convulsione mediatica intorno ai possibili esiti del voto  del 4 dicembre. I sondaggi impazzano  inseguendo le divinazioni nel fazzoletto statistico di una scarna minoranza di italiani che accetta di dichiarare le proprie scelte. Troppo pochi gli abitanti dell’universo statistico, troppo lontana la data del voto, per dare la garanzia di una convincente significatività a quello che leggiamo in questi giorni.

E poi c’ è questo clima da tifoseria calcistica a togliere razionalità al contesto: la posta in gioco sembra essere qualcosa di molto lontano dal merito – peraltro assai complesso- che coinvolge il mutamento di 37 articoli della Costituzione e sciorina anche otto pagine di norme transitorie. La posta in gioco è  il governo, anzi Renzi, la sua sopravvivenza politica, il conflitto esterno ed interno al Pd, la seconda possibilità dei Cinque Stelle dopo lo psicodramma capitolino, ancora a in corso di svolgimento, il ritrovato nemico per quella parte del berlusconismo che fa la faccia truce.

Non che il voto referendario abbia mai avuto nella storia d’Italia al centro dell’attenzione i quesiti effettivamente sottoposti al plebiscito: forse solo settant’anni fa la scelta tra monarchia e Repubblica vide confrontarsi le ragioni di merito e solo perché un grande partito di massa come la Dc lascio’ liberi i suoi elettori. Da quel momento in poi ogni voto referendario sarà un voto ideologico, orientato dai partiti ai tempi della Prima Repubblica ( basterà fare la somma dei voti raccolti alle politiche immediatamente precedenti ai referendum dai partiti sostenitori di una delle due opzioni possibili per verificare la coincidenza quasi perfetta con i voti raccolti dall’ opzione sostenuta ), orientato da uno spirito dispettoso e antagonista, dopo la fine dei partiti, cioè oggi.

Il referendum, dunque, raccoglie un rumore di fondo, piuttosto che l’ esito di una scelta razionale, che restituisce all’ urna il senso dell’indistinto che la pubblica opinione riesce ad intercettare. Perché l’elettore, si sa, è un essere vivente a forte risparmio cognitivo: non ritiene di dover spendere le sue energie psichiche per una faccenda come la politica, così male percepita e, soprattutto, così irreparabile. Almeno secondo la rappresentazione che ne fanno da tempo i media.

Qual è allora in questo momento il rumore di fondo che si è consolidato nel paese sul tema referendario?  Quello che salta a pie’ pari il merito dei 37 articoli della costituzione rinnovati dalla  legge Renzi-Boschi e  identifica Renzi con la riforma. Ed è un Renzi che ha alle spalle 20 mesi di governo, di inevitabile sovraesposizione mediatica, di naturale logoramento in un contesto generale di difficoltà economica e di disagio sociale del paese.

È’ un Renzi che, per stile e per scelta politica, ha messo sulle sue spalle la responsabilità della riforma e su quelle spalle è ormai destinata a rimanere, anche se dovesse cambiare strategia di comunicazione. E questo è un peccato, un vero peccato, perché la riforma merita davvero un dibattito pubblico serio, almeno all’altezza di quello che seppero mettere in campo i nostri padri ai tempi dell’assemblea costituente , esattamente settant’anni fa.

Pino Pisicchio

Presidente del Gruppo Misto alla Camera dei deputati

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