scritto da Eugenio Ciancimino - 14 Maggio 2022 09:08

Antimafia, ricordare Falcone senza clamori politicanti

Antimafia, ricordare Falcone senza clamori politicanti

il magistrato Giovanni Falcone (foto tratta da profilo Fb)

Il prossimo 23 maggio segna il 30.mo anniversario della strage di Capaci in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, sua moglie, Francesca Morvillo, e tre agenti della PS: Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo.

È auspicabile che le relative celebrazioni vengano improntate a sobrietà di manifestazioni lontane da clamori politicanti. Falcone ne è stato bersagliato fino a subire “infami calunnie ed una campagna denigratoria di inaudita bassezza… sicuramente ispirata da organismi e soggetti della magistratura”.

Sono sue dichiarazioni rese il 31 Luglio 1988 in prima Commissione referente-Comitato antimafia del CSM davanti alla quale è stato chiamato a dare spiegazioni su alcune indagini da lui condotte e contestate da uomini dei Palazzi della politica palermitana. Perciò, meritano qualche riflessione etica in più i rapporti tra mondo politico e magistratura e la portata dominante del correntismo, argomento ancora di attualità, in seno al CSM.

La figura e l’opera di Giovanni Falcone, in diverse occasioni non agevolate dall’organo di governo della magistratura, non sono configurabili in schemi riconducibili ad appartenenze corporative o a tifoserie politiche. In pieno clima giustizialista di “tangentopoli”, davanti alla prima Commissione referente del CSM (audizione 15.10.1991), ha rimarcato con determinazione che “i processi sarebbe bene non cominciarli quando non ci sono prove certe”, contestando la pratica del “sospetto anticamera di verità” evocata dal Sindaco di Palermo Leoluca Orlando coautore di un esposto su presunti ritardi investigativi  relativi ad appalti e delitti che avevano avuto come vittime politici, magistrati ed imprenditori.

Caustica e significativa la sua risposta: “se c’è stata una preoccupazione da parte nostra, è stata quella di non confondere le indagini della magistratura nella guerra santa alla mafia”. Ed anche, annota il cronista, di non utilizzarle per diatribe politiche tra clan attivi in disinformazione.

Di Falcone si continua a parlare per le intuizioni e la metodologia di investigazione mai praticata prima. Ne sono testimonianza i suoi suggerimenti per innovare la legislazione antimafia ed il maxi processo contro “cosa nostra” la cui istruzione, corredata di prove sostanziali, condotta in tandem con Paolo Borsellino (ucciso anch’egli, 57 giorni dopo Capaci, nella strage di Via D’Amelio), ha superato i tre gradi di giudizio. Si può ritenere uno spartiacque rispetto ai processi precedenti che si concludevano, prevalentemente, con assoluzioni per insufficienze di prove: una formula che scontava una visione riduttiva della mafia come semplice fenomeno di criminalità organizzata e che, di fatto, finiva per conferire impunità e prestigio all’aspirante mafioso o in carriera.

La svolta culturale dell’approccio investigativo nel tessuto di  relazioni sociali ed economiche ha consentito di processare un sistema, al di là dei singoli personaggi ed episodi di  criminalità. Nelle analisi di Giovanni Falcone “la mafia non è un fenomeno isolato… è un pezzo organico del sistema di potere… di cui il mafioso conosce funzionamento e meccanismi”  (da interviste rilasciate nel 1991 ad Attilio Bolzoni di Repubblica e Saverio Lodato di Unità). Se ne capisce il senso nei dubbi non sciolti che tengono acceso il faro di inchieste giudiziarie sulla sua soppressione e quella di Paolo Borsellino.

Attivate con il ricorso alle stragi, esse non possono essere attribuite semplicemente alla vendetta di rozzi pecorai “corleonesi”. Né possono dirsi epifenomeni rispetto alla presenza di un dominus storicamente radicato sul territorio, motivato e costruito sull’illegalità potendo contare in “menti raffinate” ramificate negli apparati istituzionali della legalità ed agevolate dall’indifferenza di comportamenti, per paura o compiacenza, da parte di settori della società civile.

Ecco perché fare antimafia non può che essere un impegno civile quotidiano e non un’etichetta celebrativa o un paravento politico per costruire o distruggere carriere e reputazioni. Si spera che non si affievoliscano le tensioni civili che avevano pervaso, dopo la stagione stragista, la “rivolta legalitaria” esplosa contro la mafia.

La quale, ora, sembra ritornare al tradizionale modello silente, modernizzandolo  con un “accattivante volto finanziario” di difficile controllo “nel sistema della globalizzazione”: allarme dello storico Giuseppe Carlo Marino in “Storia della mafia” edizione 2006.

Se ne trovano riscontri certamente più documentati nelle relazioni annuali rese dai Procuratori della Direzione Nazionale Antimafia, organismo promosso da Giovanni Falcone, il quale aveva avvertito con anticipo l’allargamento degli interessi e dei poteri di influenza di “cosa nostra” nell’economia legale e fuori i confini nazionali.

“È arrivato il momento – sono sue parole – di costruire una legislazione europea penale comune”,

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