In tanti, tantissimi, in questi giorni di clausura volontaria si sono spesi a preconizzare la “fine” del progetto europeo.
Tanti hanno visto, o meglio, hanno voluto vedere, la fine laddove semplicemente stava andando in scena la componente fondamentale delle relazioni internazionali: la diversità degli interessi di cui gli Stati sono portatori. Maggiori sono i problemi e, in un primo momento, maggiore sembra esser la propensione degli stati a reagire in maniera difensiva per i propri interessi.
È la base anche delle relazioni umane: la prima risposta alle difficoltà, soprattutto quando sono grandi e impattano sulla vita di ciascuno, arriva dalla pancia, dallo stomaco, dalla zona in connessione diretta con quello che si può chiamare “istinto”: funzione essenziale e vitale con cui ciascuno pensa prima a sé che agli altri che ci stanno attorno.
La razionalità che, almeno fino ad ora, ci distingue rispetto agli altri esseri viventi, aggiunge il valore di stare insieme agli altri, collaborare e condividere per risolvere, insieme, problemi comuni.
Potrebbe, per ipotesi, essere una sintesi – estrema – per raccontare la storia dell’Unione europea delle ultime settimane.
Al Consiglio Europeo di fine marzo, mentre in Italia infuriava il morbo, sembrava che il nostro Paese, insieme ad altri (Francia e Spagna in primis), fosse stato lasciato solo, non ascoltato, non aiutato in quelle che per tutti quanti noi cittadini erano legittime richieste di aiuto e supporto.
La “solidarietà europea”, si sentiva dire da tante parti, era letteralmente finita. Insieme alle tante, troppe, vittime umane il virus sembrava segnare anche la fine dell’integrazione europea a vantaggio della ricomparsa degli interessi nazionali.
A distanza di tre settimane, il gigante dormiente si è svegliato. Il 23 aprile, in sede di Consiglio europeo questa solidarietà ha iniziato a riemergere.
Consapevoli del grande momento di difficoltà affrontato da ciascuno e della possibilità di uscirne solo insieme, i 27 paesi membri dell’Unione europea hanno cominciato a convergere su posizioni comuni.
La solidarietà, nata sulle ceneri della Seconda guerra mondiale quando occorreva dare pane e assicurare, su basi solide e durature, la pace – temi molto concreti di cui troppe volte ci dimentichiamo – è riemersa.
L’emergenza del coronavirus ha fatto venire bene in luce che gli stati europei possono uscirne in maniera forte soltanto collaborando e stringendo i legami e non invece alzando muri.
Per un motivo molto semplice e concreto: la relazione collaborativa si rivela vincente perché l’epidemia è un problema talmente grande che nessuno stato, per quanto forte possa essere, riesce a farcela da solo.
E questo si rivelerà particolarmente evidente a livello economico quando, tra qualche giorno, toccherà ricostruire passo dopo passo.
Tra le cose positive di questa fase c’è l’opportunità di vedere il nostro paese in un’ottica differente: siamo italiani, cittadini di un paese fondatore dell’Unione Europea, processo di unione e integrazione che oggi raggruppa 27 stati e che – da oltre cinquant’anni – ci fa vivere in un contesto di pace.
Anche e soprattutto perché l’integrazione dà agli Stati la possibilità di poter, anche, non andare d’accordo e di poterlo fare comunque in maniera pacifica.
C’è bisogno di solidarietà per affrontare problemi comuni ma ricordiamoci che la nostra vita, il modo in cui viviamo quotidianamente, non sarebbero gli stessi senza le conquiste che l’Unione Europea ci ha regalato in termini di pace, libertà e democrazia.