scritto da Mariano Avagliano - 04 Ottobre 2017 13:11

La metafisica influente di essere cavajuolo

Qualche annetto fa, il filosofo e pensatore Karl Popper formulò una delle sue intuizioni più fulminanti: quella delle “metafisiche influenti”. Secondo Karl, esistono concetti e frammenti di conoscenza che, sebbene “non scientifici” in quanto “non falsificabili” al momento, influiscono e condizionano – sembra uno scherzo ma è così che funziona – l’humus sul quale fioriscono promettenti teorie scientifiche.

La stessa cosa accade nella vita di tutti i giorni in cui prendiamo decisioni e scegliamo, quasi inconsapevolmente, a volte solo in base a intuizioni che manco sappiamo da dove arrivano.

Non sto parlando di condizionamenti inconsci o di istinto, mi riferisco, invece, al valore che il luogo in cui nasciamo ha nel forgiare il nostro modo di essere, di pensare, di risolvere problemi complessi o semplici.

E con Popper possiamo anche fermarci qua perché non è di Filosofia della Scienza che voglio parlare ma delle origini, della “cavesità”, dell’esser, in tutto e per tutto e anche se distante fisicamente, cavajuolo.

Quando sei lontano da Cava questo bagaglio che ti porti appresso viene fuori quando meno te lo aspetti. La camminata della sera sotto i Portici della sera, lo struscio del Corso, le campane di Piazza Duomo e soprattutto a sfugliatell di Sandro, sono momenti che come la Madelaine di Swann, aprono finestre incredibili, non semplicemente sul passato ma sul presente, sul modo in cui esisti oggi. Aldilà di luoghi e ricordi, essere cavajuoli, fuori sede, significa, secondo me, innanzitutto portarsi appresso questa cultura di ambiente raccolto, di comunità di spazio condiviso che, non sembra, ma quando stai fuori ne senti la mancanza. Intendo dire che ti porti dentro “la Piazza”, sto posto in cui scendi e incontri persone, amici e conoscenti di vario grado che pure se hai visto una sola volta ti chiedono “in famiglia tutt’appost?” e, dove basta dire un “m’arraccumann tienatell pe tte” per spammare in pochi minuti i fatti tuoi verso tutta la cittadinanza.

La frase “scendo in piazza” te la porterai appresso, sorridente, immaginando chi incontrerai, sia se farai un’impresa (“ti metterai su piazza”) e sia se scenderai le scale di un palazzo, di una casa di una qualsiasi città in un qualsiasi altro posto del Mondo.
Ma non si tratta solo di questo.

A Cava la piazza è fatta pure di portici e quindi, distante, quando piove e stai camminando per strada, pensi “A Cava a st’or putev sta sott i portici”. Pure questo ti porti appresso. L’idea che comunque, anche se “scendi in piazza”, c’è sempre un “tetto”, i “portici” che in qualche modo ti danno un’idea di casa, di stabilità, di fondamenta senza farti mai sentire spaesato. Anche se piove a dirotto per ore.

E ancora, un’altra cosa: un sentimento fiero, simile a un principio di “puzza sotto il naso”, di essere parte di una città, di un nucleo, di un gruppo che, come tanti altri in Italia, ha una sua bellezza da “piccola Svizzera” e ha contribuito a disegnare percorsi storici di non poco conto (“A Fest i Castiell” con annessi e connessi).

Tre frammenti che sembrano poco significanti ma che, invece, prendono forma, colore e calore ogni volta che ritorni. E sorridi quando “ammiezz i portici” senti al bar qualcuno che dice “acca’ nun se sta bbuon” perché poi, alla fine, da cavajuolo quale sei pensi che “tutt’appost anche se nient è in ordine”.

Ha iniziato a scrivere poesie da adolescente, come per gioco con cui leggere, attraverso lenti differenti, il mondo che scorre. Ha studiato Scienze Politiche all’Università LUISS di Roma e dopo diverse esperienze professionali in Italie e all’estero (Stati Uniti, Marocco, Armenia), vive a Roma e lavora per ItaliaCamp, realtà impegnata nella promozione delle migliori esperienze di innovazione esistenti nel Paese, di cui è tra i fondatori. Appassionato di filosofia, autore di articoli e post, ha pubblicato le raccolte di poesie “Brivido Pensoso” (Edizioni Ripostes, 2003), “Esperienze di Vuoto” (AKEA Edizioni, 2017).

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