L’insulto come valore aggiunto del “contratto” M5S/Lega
“Corrotto” ed “incapace” sono i due nuovi aggettivi del repertorio di insulti che animano il duello tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini.
Dire che si tratti di un linguaggio poco edificante è un eufemismo se usato dai massimi esponenti di forze politiche cui, al momento, è affidato il mandato di governare l’Italia. Se ne capisce la strumentalità elettorale ma non il senso etico della responsabilità verso le istituzioni evocato da Di Maio, anticipando ed interferendo su un giudizio che spetta alla Magistratura emettere.
Il primo aggettivo è alla base della richiesta di dimissioni avanzata dallo stesso Di Maio nei confronti del Sottosegretario Armando Siri, leghista, indagato dalla Procura di Roma; il secondo aggettivo rivolto da Salvini a Virginia Raggi, Sindaco pentastellato, ha per oggetto la situazione amministrativa e finanziaria del Comune di Roma.
Ed è proprio il cosiddetto decreto “Salva Roma” l’ultima occasione, in ordine di tempo, a tenere alta la tensione tra M5S e Lega, già in rotta di collisione su TAV, porti ed immigrazione, sul concetto di famiglia e finanche sulle celebrazioni di una data storica, quale il 25 Aprile, caricate di attualità politica.
Ne deriva una casistica di controversie debordanti rispetto ad una normale dialettica tra partner di governo originato da diversità di punti di vista. Si tratta di contrapposizioni che riguardano la sfera dei valori che, come tale, presuppone scelte di campo non facilmente componibili in un artificioso “contratto di governo” avulso da un pensiero politico.
Venuta meno una possibile comune visione delle istituzioni, si comprendono le difficoltà di argomentare le ragioni del buon senso su argomenti emergenti fuori “contratto” o se inseriti la loro discussione non può non rientrare nella logica della grammatica del rispetto della pluralità delle opinioni.
Si comprende lo sfogo o il disappunto ma non l’insulto, a meno che non lo si voglia elevare a valore aggiunto di trasparente chiacchiericcio a beneficio dei social network, ma a scapito della reputazione delle istituzioni e della lealtà che si deve al corpo elettorale.
Nella prima e nella seconda Repubblica non sono mancate asprezze, ma si ricorreva alle verifiche delle maggioranze, spesso anche in maniera pretestuosa per far cadere il Governo in carica o per sostituire un suo componente: si operava nell’ambito di una dialettica politica razionale del possibile nella quale c’era, citando lo storico Pietro Scoppola, “la sofferenza per raggiungere l’impossibile” fino al punto di ridare la parola agli elettori.
Al momento non se ne parla, a dispetto degli insulti reciproci intercorsi tra M5S e Lega.
Come dire, “O tempora, o mores”.