Una nobile figura di medico di famiglia vittima del coronavirus
Vi sono periodi, come quello che stiamo attraversando, nei quali viviamo intensi stress, non solo fisici, ma principalmente psicologici e affettivi, durante i quali si acuisce la sensibilità verso taluni fenomeni che, in periodi normali, vengono ignorati o sottovalutati. O magari considerati come affatto importanti, ma che i disagi psicologici derivanti da stress come quello attuale danno agli stessi dimensioni diverse, probabilmente più corrette.
E sono anche periodi in cui emergono più spesso, durante il forzato ozio, ricordi che altrimenti emergerebbero con minore frequenza.
In questo senso, è stato ancora più forte ed avvertito il dispiacere che ha toccato il cuore di migliaia di concittadini per la recentissima prematura morte per aver contratto il coronavirus del dottore Antonio de Pisapia, che ho conosciuto e avuto modo di apprezzare, anche se solo per motivi medici, e che, tra l’altro, era un attento e fedele lettore del nostro giornale.
Un ricordo ancora troppo vivo per farmi dimenticare la sua indole altruista, la sua disponibilità verso i pazienti, il suo impegno costante a dare sempre qualche consiglio, una parola di conforto, oltre a spiegazioni sempre chiare e tranquillizzanti su malanni, medicine, terapie e decorsi di guarigione.
Una persona squisita e affettuosa come mi confermava con voce commossa pochi giorni fa il direttore del nostro giornale. “Quest’anno, negli ultimi mesi di vita di mamma -mi ha ricordato il direttore Pasquale Petrillo- ogni sabato mattina, anche nel mese di agosto, Antonello veniva a controllare le condizioni di salute di mamma, rammaricandosi con un velo di evidente tristezza per aver perso la sua mamma pochi mesi prima”. “Ed ogni volta che m’incontrava anche per caso in strada -ha ricordato ancora il nostro direttore- la prima cosa che chiedeva era: come sta mammina. Abbiamo perso una persona buona, un amico, oltre che uno splendido medico da trincea”.
Una figura, insomma, meravigliosamente umana, gentile, affettuosa. Un amico, un familiare oltre che un professionista serio e disponibile.
Questo era il dottore de Pisapia.
Tantissimi sono stati i medici che ho conosciuto, molti mi sfuggono dalla memoria, ma alcuni sono rimasti bene impressi, a volte per esperienze negative altre volte per ricordi positivi, qualcuno per ricordi eccellenti, che la memoria non cancella.
Un ricordo negativo è quello di un medico specialista nocerino, oramai deceduto da anni, pace alla sua anima, il quale aveva lo studio privato, ma era anche dipendente dell’Usl e prestava servizio presso l’ex Inam.
All’epoca l’Inam era l’Ente presso il quale i lavoratori dovevano far capo per esigenze sanitarie ed io personalmente mi recai per visita di controllo dopo una breve malattia. Questo medico, sempre tanto cerimonioso, affettato e disponibile quando riceveva presso il suo studio privato, ovviamente per visite private e ben pagate, era totalmente distaccato, taciturno e scontroso durante le visite presso l’Inam, e, pure quando non c’era nessuno in attesa, ti “arronzava” in malo modo. Misurò la pressione senza nemmeno farmi di togliere il cappotto, mi piazzò sul braccio incappottato il manicotto dello sfigmomanometro, in un attimo misurò la pressione sanguigna, l’attimo dopo mi liquidò con un glaciale: “tutto a posto, può andare, buongiorno” indicandomi la porta. Il tutto era durato pochi minuti, una visita saetta.
Altro esempio negativo è, purtroppo, recente, perché i tempi cambiano ma gli avvoltoi restano e sfruttano tutte le occasioni, anche affiancando le strutture pubbliche, per lucrare sulle tasche della povera gente; e meno male che ora, diversamente da allora, l’assistenza pubblica è abbastanza efficiente, per cui la vita per gli avvoltoi penso sia diventata un tantino più difficile.
Questa ulteriore esperienza negativa è recentemente capitata a un mio congiunto, affetto da problema di varici a una gamba.
Presso un Ospedale dell’Agro nocerino al reparto di angiologia consigliarono un semplice intervento chirurgico risolutivo, come è effettivamente avvenuto, in day-hospital.
Intervento riuscito, controllo e medicazione dopo una settimana, ma non in ospedale, come sarebbe stato logico fare, ma presso lo studio del chirurgo dove, il giorno stabilito, si trovarono almeno una decina di persone nelle stesse condizioni: operate in ospedale, con prosiegui presso lo studio, ovviamente a pagamento e, guarda caso, senza ricevuta: forse una dimenticanza! il paziente si azzardò a chiederla, il medico lo guardò storto e la scarabocchiò, ma nelle numerose sedute successive l’amico non ebbe più il coraggio di chiederla.
Ma ho vissuto anche esperienze positive, che riabilitano la classe medica e fanno ben sperare per il futuro.
Mi è rimasto indelebile quella di un grande professionista calabrese, originario di un paesino in provincia di Cosenza, ma trasferito a nord, dove, presso gli Spedali Civili di Brescia, era il Primario di Ginecologia e Ostetricia e di Endocrinologia.
Quando una ragazza, nel periodo della pubertà, cominciò ad avvertire i sintomi di una malattia che la trasformavano negativamente giorno dopo giorno, i familiari disperatamente cercarono, dopo aver sperimentato vari rimedi prescritti inutilmente da medici locali, uno specialista che individuasse l’origine e prescrivesse le cure idonee.
Vennero conoscenza di questo professionista al quale telefonicamente fu spiegato il problema. Fu fissata subito una visita, con l’avvertenza che quasi certamente sarebbe seguito il ricovero presso il suo reparto.
Erano ancora sulla porta e il professore andò loro incontro diagnosticando: “questa ragazza ha …”.
La visita confermò e si passò al ricovero, che avvenne nella serata inoltrata.
Gli Spedali di Brescia, una grande struttura in mattoni rossi, sono uno dei tanti modelli di efficienza che si trovani dal centro italia in su e che da noi, all’epoca e anche oggi, è difficile trovare; si accede attraverso un salone enorme, all’epoca tutto rivestito di marmo, alle pareti decine di quadri dei medici che avevano diretto negli i vari reparti.
All’accoglienza due efficienti, ma soprattutto gentili e umane, infermiere presero letteralmente “in carico” la giovanissima e spaesata paziente, la fecero immediatamente sentire a suo agio, l’accompagnarono nella stanza a lei già riservata, alle 19 di sera l’ufficio ricoveri era ancora aperto.
Quando si pensa a quella organizzazione e la si paragona a quella di qualcuno degli ospedali in zona che ben conosciamo, vien da piangere.
Tre giorni di ricovero e analisi e indagini innumerevoli, poi convocazione del Primario nel suo studio in ospedale; vennero fornite dettagliate le spiegazioni, illustrata la terapia, non mancarono affettuosi rincuori alla ragazza e ai preoccupati genitori, per i quali esortò la stessa paziente a rincuorarli.
Dopo circa un semestre di terapia e continui contatti con lo specialista, venne concordata una visita di controllo nel suo studio privato a Brescia.
Dopo l’esame degli accertamenti, la visita e un lungo colloquio, quando gli venne chiesto quanto pagare, candidamente rispose: “non mi dovete niente, era solo un controllo”.
E’ rimasto nel cuore della ragazza e dei suoi familiari questo medico, soprattutto amico, che ha seguito l’evoluzione della malattia fino alla guarigione; dopo qualche anno, per evitare il disagio del viaggio a Brescia, indicò una struttura sanitaria collegata al Policlinico Agostino Gemelli di Roma, tutto in convenzione e senza visite private.
Ma con quel Professore amico calabrese si è rimasti in contatto, la ragazza da lui guarita è stata spesso a casa sua in Calabria per una manifestare affetto e riconoscenza, e gli ha portato anche la bambina che, grazie alle sue cure, aveva partorito.
Ma anche a Cava ho conosciuto fior di professionisti che si sono sempre mostrati disponibili, disinteressati e all’altezza della situazione. Una parente ha avuto gravi problemi respiratori circa un decennio addietro, e fu ben assistita e curata da uno dei più affermati specialisti di pneumologia della zona, cavese doc.
Recentemente i problemi sono ricomparsi e, informata della esistenza, presso un Ospedale del circondario, di un reparto di eccellenza, che studia i casi a livello di ricerca universitaria, e che fa capo proprio allo specialista metelliano, responsabile per tutta l’Asl provinciale, la paziente si è rivolta a quella struttura.
Al termine di esami, indagini accurate e cure appropriate, nel piazzale dell’ospedale venne incontrato il Primario al quale venne chiesta una visita privata per sottoporgli la documentazione e avere anche il suo parere. “Non è necessario -fu la risposta- venite al mio studio qui in ospedale, prenotatevi presso la segreteria.”
Concludo con una considerazione personale.
Il mondo della sanità si dibatte tra grandi professionalità e mediconzoli di infimo livello; nelle grandi professionalità si va dall’eccessiva venalità all’altruismo spesso disinteressato.
Tra queste due categorie agli antipodi, si trova la categoria dei medici che umilmente e umanamente svolgono il proprio lavoro, spesso bistrattati da tutti, la categoria dei “medici di base”, come vengono chiamati tutti questi angeli custodi, che più umanamente definisco “medici di famiglia”. Una definizione, questa, nella quale la parola famiglia è intesa nel senso letterale, ma anche nel senso allargato di “familiare”. Ovvero professionisti che quotidianamente sono in prima linea a contatto con una umanità sofferente che spesso va da loro non solo per avere una ricetta, ma principalmente per sentire una parola di conforto.
Ed è proprio a questa categoria che apparteneva il compianto dr. Antonio de Pisapia, per la cui anima pregano migliaia di cavesi.