scritto da Eugenio Ciancimino - 22 Maggio 2023 09:48

Capaci e stragi di mafia tra vulgate e verità sospese

La strage di Capaci consumata il 23 maggio del 1992, nella quale persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo ed i tre agenti della scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo, può essere assunta come l’inizio della stagione terroristica posta in essere da Cosa Nostra contro uomini dello Stato, siti e simboli istituzionali.

Dopo 57 giorni il tritolo brillò a Palermo in Via D’Amelio per la soppressione di Paolo Borsellino e della sua scorta ed a seguire, nei successivi mesi del 1993  seminò altri lutti e devastazioni a Roma, Milano e Firenze. Perciò, in occasione delle celebrazioni del trentunesimo anniversario, a cura della Fondazione Falcone, viene dato l’avvio alla realizzazione del Museo del Ricordo di tutte le vittime del biennio 1992/93, a Palermo nello storico quartiere Kalsa  dove nacquero Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

In precedenza, sotto il piombo di Cosa Nostra erano caduti altri magistrati, uomini della Polizia, dei Carabinieri, politici e giornalisti: delitti programmati, scanditi e consumati in un arco di tempo più vasto. Cioè, prima di Capaci lo stragismo  di stampo mafioso si era manifestato all’interno delle guerre tra cosche contrapposte, ma rare volte ciascuna di esse aveva alzato il tiro contro figure di apparati dei poteri legali o per non suscitarne le reazioni o per coltivarne  compiacenze funzionali all’esercizio dei propri dominii sul territorio.

Ci fu un repentino cambio di strategia, inconsueto nei registri della mafia. Su di esso  circolano più vulgate che verità: le prime si incrociano su ricostruzioni politologiche, le seconde occhieggiano nelle numerose sentenze già emesse che non disvelano ombre ed opacità che permangono fra il detto ed il non detto. Ne fanno da contesto quelle relative ai depistaggi investigativi e processuali sulla strage di Via D’Amelio e l’ultima pronunziata dalla Cassazione con la quale si assolvono dall’accusa di trattativa Stato/Mafia, avviata dalla Procura di Palermo, tre alti ufficiali del Ros dei carabinieri, Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, perché il fatto non sussiste, e Marcello Dell’Utri, ex senatore di FI, dal concorso esterno in associazione mafiosa.

Si chiude un ventennio di narrazioni politicamente suggestive e scarsamente interessate a ripercorrere le trame sulle inchieste su cui avevano lavorato Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Resta aperto il capitolo sulla strage di Via dei Georgofili tenuto in vita dalla Procura di Firenze anche da rivelazioni “a schiovere” su presunti rapporti pregressi tra i boss Giuseppe e Filippo Graviano, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, rese da sedicente collaboratore di giustizia, Salvatore Baiardo, ospite della trasmissione “Non è l’Arena” de La7.

Sembrano, viceversa, destinate all’oblio le dinamiche interne al Palazzo di Giustizia di Palermo fonti di calunnie nei confronti di Giovanni Falcone, distillate sui media ed orchestrate dai soliti ambienti del politicamente corretto, perché, mutuando da Bacone a Plutarco, calunniando qualcosa rimane sempre attaccato.

“Cominceranno a sporcarti –  sono parole di Falcone – quando capiranno di non poterti eguagliare e superare”.

Lo stesso clima in cui è maturato anche l’isolamento posto in essere nei confronti di Paolo Borsellino subito dopo la strage di Capaci. Sul punto è acclarato nella sentenza del processo Borsellino ter che dietro la sua soppressione ci fossero le indagini su mafia e grandi appalti condotte da uomini del Ros e su cui Giovani Falcone, probabilmente, aveva sviluppato ulteriori metodi di conoscenza sulle commistioni affaristiche tra poteri mafiosi, politici, finanziari ed imprenditoriali.

Sull’opportunità di approfondirne i contesti o archiviarne i contenuti acquisiti si incrocia una sequenza di date, inquietante: 14 luglio la Procura di Palermo, in contrasto con l’opinione di Borsellino, opta per l’archiviazione; 19 Luglio alle sette del mattino il Capo della Procura comunica, per telefono, a Borsellino la delega a potere svolgere le indagini da lui richieste, alle sedici e cinquantotto si consuma la strage di Via D’Amelio; 22 luglio va in esecuzione il decreto di archiviazione.

Coincidenza, imprevidenza o doppiezza di  comportamenti? Sta di fatto, perché più credibile, che il freno alle iniziative di Borsellino e le delegittimazioni o denigrazioni del metodo Falcone abbiano potuto avere origine da ambienti insediati nei Palazzi della politica, della giustizia e della finanza d’affari prima che ne capissero senso e portata i pastori dei casolari di Corleone discesi in città.

Mentre proseguono e si rinnovano saghe commemorative e cimenti ideologici su mafia ed antimafia non sarebbe vana l’idea di una specifica Commissione parlamentare d’inchiesta: potrebbe restituire ai cittadini della Repubblica, che ha la Costituzione più bella del mondo, verità rimaste sospese e ristorerebbe la credibilità e la dignità che le sue istituzioni della Giustizia meritano.

E che sia una buona notizia.

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